Il manifesto 23 marzo 2007
Attraversare
di Rossana Rossanda
Si dà grande rilievo all’emergere di figure femminili nei ruoli politici di comando: Angela Merkel è cancelliere in Germania, Michèle Bachelet premier in Cile e Ségolène Royal candidata alla Presidenza della Repubblica in Francia, Hillary Clinton corre per la presidenza del 2008 negli Stati Uniti. Ida Dominijanni (il manifesto del 13 marzo 2007) segnala una riflessione di Luisa Muraro e Lia Cigarini: sarebbe un effetto del femminismo.
Sì e no. Certo il ritardo con il quale approdano ai governi è la più manifesta confessione che il sistema dichiarato di diritti universali non è tale affatto, o che qualcosa di non detto è riuscito a eluderlo se neppure i giuristi all´esclusione delle donne hanno dato grande attenzione. Non è straordinario che, a oltre due secoli dalla dichiarazione dei diritti del 1789, secondo la quale ogni uomo nasceva «uguale in diritti» (per «uomo» si intendeva membro della specie umana), ci si feliciti caldamente se qualche donna avanza nel governo della cosa pubblica? Già fra il 1789 e l’ammissione delle donne al suffragio universale, diritto primo e elementare, era passato mediamente piu d’un secolo e mezzo.
Le donne erano uscite dalla casa e dai campi, dilagavano nel lavoro e nelle reti sociali, ma filosofia e costume facevano come se non fosse. E all’inizio del 2000 ci si stupisce che questo avvenga anche nella sfera politica. Dove peraltro le donne restano assai minoritarie, come dimostra la discussione fra quote e non quote, quasi che i sessi non fossero manifestamente due e uguale dovesse esserne la rappresentazione. Di fronte a questa macroscopica distanza fra principi e realtà degli umani rapporti, alcune femministe hanno detto che il ritardo del diritto è stato tale che le piu avvedute lo rifiutavano, stabilendo i veri e decisivi rapporti solo fra di loro, in una comunità altra.
Sarebbe l’accumulo simbolico di questa comunità critica di donne ad avere sfondato il muro dei poteri pubblici cui stiamo assitendo? Non so. Lo sfondamento è denso di valori e di interrogativi. Fa riflettere che esso si sia verificato nel secolo scorso, e prima che in occidente, in sistemi che dire di democrazia imperfetta è poco. E’ con la fine del dominio coloniale inglese che si ha la prima donna capo di stato – se non sbaglio – a Ceylon, Sirimavo Bandanaraike. E poi Indira Gandhi in India e Benazir Bhutto in Pakistan. Sono contesti tumultuosi e è determinante il carisma familiare; Indira Gandhi è figlia del Pandit Nehru, seguace del Mahatma e primo capo dello stato indipendente. Benazir Bhutto, pakistana, è figlia di Ali Bhutto, impiccato dal colpo di stato del generale Zia. La Bandanaraike vedova del leader dell’opposizione appena ucciso. Anche Violeta Chamorro in Nicaragua e Cory Aquino nelle Filippine sono ereditiere d’un capo. Tuttavia se in tutte il nome che portano è stato decisivo nell’accedere alla carica, nessuna di esse governa come schermo di un altro uomo. Indira Gandhi diventa anzi una figura di rilievo nel secolo (finirà assassinata come uno dei suoi figli), ma anche altre hanno governato i loro paesi da sé e per sé. Regine a parte (e anche queste poche, e madri o vedove) questo non era accaduto sino a metà del Novecento, a indipendenze e borghesie nazionali installate.
Nell’ambito occidentale, tolta Golda Meir che diventa premier in Israele dopo la guerra dei sei giorni, nel 1969, ci vorranno altri dieci anni per avere la prima donna premier in Europa: è il 1979 quando entra, a Downing Street, Margaret Thatcher. Nel suo caso non contano affatto né padre né marito e figli, come più tardi per la norvegese Gro Brundtland, oggi per Michèle Bachelet e Angela Merkel e forse domani Ségolène Royal, cui l’essere in coppia con François Hollande, segretario del partito socialista nuoce più che non giovi. Conta invece negli Stati Uniti, che non hanno mai avuto una donna presidente, se Hillary Clinton si candida con il nome del marito piuttosto che con il suo, Rodham. E soltanto da quest’anno una donna, Nancy Pelosi, presiede il Congresso a Washington. In Italia sono molte e da un pezzo le donne sindaco, ma non si delinea una figura di premier.
Se ne possono trarre delle conclusioni? Per esempio che una figura femminile emergerebbe più facilmente in situazioni sociali arcaiche e nel corso di acuti conflitti identitari? Che, salvo nel caso di Golda Meir, proveniente dalla sinistra politica e sindacale del Mapai e dell’Histadruth, sono i partiti conservatori a portare alle massime cariche una donna? Qualche nostra femminista s’era innamorata dell’Irene Pivetti quando la Lega l’ha imposta come presidente della Camera: giovane e bella, era sembrata «diversa» da Nilde Jotti, che aveva coperto la stessa carica, o di Rosy Bindi, che ha molto più protagonismo oltre che sale in zucca. E´ sicuro che Margaret Thatcher ha avuto più fegato del suo partito nel demolire quel che poteva delle conquiste sociali del Labour, non per niente l´hanno chiamata la lady di ferro. Ma questo vorrebbe dir solo che le donne di destra hanno più chances di quelle di sinistra. In un registro piu soft è lo stesso per Angela Merkel, la cui ascesa è stata contrastata con tutti i mezzi, e non i più puliti, da Gerhard Schröder e Joschka Fischer. E in chiave antiprogressista sono passate Violeta Chamorro in Nicaragua e Cory Aquino nelle Filippine. Farebbe eccezione il Partito socialista in Francia – breve e infelice era stato il passaggio di Edith Cresson su chiamata di Mitterrand – se Ségolène Royal non si fosse scelta da sola come candidata alla Presidenza della repubblica, creandosi una sua base attraverso il suo blog «Désir d’avenir» e battendo i maschi di famiglia. Infine, di queste donne femminista non è nessuna, eccezion fatta per Gro Brundtland e per un iniziale impegno, smentito poi da quel che ha fatto al governo, Benazir Bhutto. Ad avere la meglio è l’empowerment proposto da Hillary Clinton, con tutte le sue ambiguità.
Non direi dunque che il femminismo – a stare alla formulazione degli anni ´70-´80 come movimento di liberazione della donna che ha denunciato l’emancipazionismo come spinta a ottenere gli stessi ruoli dei maschi – sia stato l’elemento decisivo. Esso ha avuto e mantiene un ruolo assai piu determinante nella crisi della politica novecentesca che nella ascensione delle donne in politica. Questa si deve ancora in grandissima parte a quell’emancipazione femminile che è innestata nella crescita della borghesia occidentale.
Innestata e rispondente alla logica del sistema economico, ma incapace di obliterare il conflitto sessuale. Esso domina esplicitamente nelle culture estreme: i neocon strepitano contro il burka ma hanno tenuto fermo il patriarcato in forme fin derisorie, come il giuramento di castità fatto dalle figlie ai padri in cerimonie molto d’élite, fra fiori e nastri, precluso l’ingresso alle madri, a mo´ di garanzia che la consegna della fanciulla passi da uomo a uomo. La chiesa di Ratzinger si impegna ossessivamente contro il sacerdozio femminile. Tutti i fondamentalismi si basano sulla inferiorità della donna, e se mai c’è da chiedersi perché oggi si manifestino più di ieri. Ma fuori di essi non cessa una opaca misoginia, mista alla confusione degli uomini su di sé e il timore d’un crescere di qualche potere femminile. Queste inconfessate paure sono non meno cogenti del bisogno di forza di lavoro, fisica e intellettuale, delle donne. In Francia, la candidata Ségolène Royal è seguita dai media con un voyeurismo compulsivo, dagli abiti che porta alla minima parola che dice o non dice, e le donne, che non votano mai con giubilo per le donne, non si privano dei sé e dei ma – ma veste troppo elegante, no troppo noiosa, ma fa troppo professoressa, no troppo madre, ma è troppo femminista, no non lo è affatto, ma (e è il dubbio piu seminato) sarà poi in grado di dirigere un grande paese? Domanda che nessuno si porrebbe per un maschio con un curriculum come il suo, due volte ministra, con Mitterrand e con Jospin, e presidente d’una grande regione. Il patriarcato è incrinato, ma lungi dall’essere finito.
Soprattutto la macchina del governo trita tutto ciò che non sta già nelle sue articolate maglie. E non perché vecchia e non funzionante, ma perché complessa e coinvolgente. Molte sono state le donne portate avanti da Mitterrand, incluse femministe storiche come Antoinette Fouque e Véronique Néiertz, molte sono state ottime ministre in dicasteri essenziali come economia e lavoro (Aubry) o giustizia (Guigou), ma nel sistema politico nulla hanno cambiato, non dico le forme o il metodo, ma neppure nelle proporzioni fra contenuti. Esso è impermeabile: anche il presentarsi di Cicciolina a Montecitorio nuda sotto la bandiera nazionale ha turbato un momento, è scivolata via come la pioggia sulle piume di un´anitra. Se la società civile, quale che sia il senso che si voglia dare alla parola, se ne ritira, esso continua a macinare le decisioni, e è penoso sentir ripetere che esso sarebbe in crisi. Non è in crisi, l’astensione essendo un suo meccanismo di funzionamento messo in conto. Così è anche quando se ne ritirano le donne dichiarandolo inessenziale. O se ne cambiano i codici o si subiscono.
Ma come si cambiano? Il discorso sarebbe lungo. Mi ha colpito la morte di Angela Putino, cui Luisa Muraro ha dedicato una bella e affettuosa pagina sul manifesto del 17 gennaio scorso. Angela era esile come un uccello e il suo ragionare era un volo di rondine che lasciava senza fiato. Ma la sua riflessione sul farsi del soggetto, dell’idea di sé nelle culture e nel tempo mi pare la piu fertile; avviene, essa scrive, come similmente all’evoluzione delle forme biologiche, vista più da Cuvier che da Darwin, per attriti e inclusioni, non sorretta da un disegno finale ma disegnando piu fini, via via formantisi e formatori. La «differenza» delle donne sarebbe «l’estraneità» alla storia, guidata finora da un solo sesso, e oggi affiorata alla coscienza e non più subita. Così ne parlava Virginia Woolf e Putino reinterpreta: essa produce uno sguardo diverso, una lettura altra. Nella «società delle estranee» avevo, a suo tempo, veduto un riufiuto di ingerirsi. Putino lo vede un’ingerenza permanente, uno sguardo da un altro punto di fuga, un approccio via via modificato da quel che vede e che a sua volta modifica. E’ un farsi, una storicità senza alcun determinismo, che liquida il dilemma fra omogeneizzarci al pensato politico o voltargli le spalle. A condizione che non pensiamo a noi stesse come un progetto finale ma inattuato, quale è suggerito dall’ordine della madre, o da chi ci vede come portatrici di sentimenti e passioni che romperebbero con l’astrazione del maschile (e quindi del politico, peraltro traversato fin troppo da passioni e sentimenti, alti e bassi). Le soggettività di Angela sono differenti e connesse per frizione, chiuse e aperte, mai ripetentesi tali e quali.
E’ una chiave per ricontrattare e riscrivere le regole del pensare e fare politico. Che dunque dovremmo riattraversare tutto sempre da chi guarda venendo da un punto diverso, ma guarda, non si distrae, vuol vedere tutto. E nel farlo persegue, per così dire, umanamente, un conflitto che non approdi a un suicidio o a una messa a morte, anche se molto deve cadere. In questa chiave leggerei l’affermarsi di alcune donne dentro gli schemi di un’emacipazione che ha modificato la scena anche per l’accumulo di un´esperienza di sé femminista, andata oltre di essa. Anche e oltre.