Il documento proposto alla discussione da A/matrix in occasione dell’assemblea che si è tenuta sabato 11 marzo presso la Casa Internazionale delle donne di Roma, nasce dall’intersezione di vari filoni di riflessione, non a caso assolutamente connessi, portati avanti dal gruppo lungo gran parte della sua esistenza.
La prima riflessione è quella sui dispositivi di normazione dei corpi. Pur passando attraverso molteplici vie, questa trova sicuramente, oggi più che mai, la sua strada privilegiata nelle leggi ed in particolare in quelle che “normano la vita”, tra le quali spicca la famigerata legge 40, fondamento dell’idea della “Donna” come incubatrice e della naturalità della coppia eterosessuale unica e legittima. Secondo filone di riflessione è quello sulla famiglia, che pur nelle trasformazioni che la hanno caratterizzata e nella moltiplicazione delle sue forme, continua ad essere fondata su rapporti di potere tra i sessi e su relazioni che hanno come paradigma quello dell’appropriazione dei corpi delle donne.
La famiglia, fondata in primo luogo sulla coppia eterossessuale – proposta come destino sociale, cellula isolata, luogo unico della realizzazione delle proprie possibilità relazionali e affettive – continua ad essere il primo ricettacolo della violenza contro le donne, ma anche il sacro feticcio agitato dalla politica e posto alla base del nostro sistema di welfare. Il terzo percorso di riflessione è quello sulle trasformazioni del mondo del lavoro. Già la nostra partecipazione alla manifestazione nazionale contro la precarietà del 4 novembre era stata caratterizzata dalla volontà di portare avanti un percorso femminista autonomo sui temi del reddito e del lavoro. In quell’occasione avevamo constatato che la così detta “femminilizzazione” del lavoro – vale a dire l’assunzione da parte del lavoro “produttivo”, delle principali caratteristiche di quello “riproduttivo”: flessibilità, indeterminatezza, messa a frutto delle capacità relazionali e di cura – ha reso la sfera della produzione e quella della riproduzione profondamente interrelate, facendo sfumare la separazione tra lavoro e vita. Con questo ragionamento alle spalle avevamo proposto un nesso tra legge 30 (e pacchetto Treu) e legge 40: armi, entrambe, del tentativo di “mettere a lavoro le nostre vite e di appropriarsi dei nostri corpi strappandoli al desiderio”. Se, però, la “femminilizzazione” del lavoro è una categoria ormai ampiamente condivisa, il lavoro “riproduttivo”, ancora svolto essenzialmente dalle donne, continua ad essere disconosciuto in quanto lavoro: in questo senso è servita a poco la sua monetarizzazione avvenuta attraverso l’esternalizzazione alle donne migranti. La proposta di un reddito per l’autodetrminazione – per tutte/i, diretto e indiretto, sganciato dalla capacità produttiva, dallo stato civile, dalla nazionalità, erogato fina dalla nascita -, che ci supporti, sul piano tanto simbolico quanto materiale, nell’uscita dal lavoro e dalla famiglia, nasce dall’intersezione di queste riflessioni.
Le considerazioni e le obiezioni sollevate domenica durante l’assemblea sono state numerose ed interessanti. Proverò, senza pretese di esaustività, a riportare alcune delle questioni più sentite.
In primo luogo è stata espresso da molte il timore di ricadere, attraverso la richiesta di un reddito per tutte e tutti, in un universalismo neutro che annulli la differenza e le differenze.
In effetti, però, le caratteristiche del reddito per l’autoderminazione, pensato come individuale e incondizionato (e quindi per tutte/i), dovrebbero contrapporlo ad un modello di welfare familista (si pensi solo agli assegni familiari) che garantisce aiuto ed assistenza sulla base dell’adempimento di un ruolo (madre, moglie, convivente, figlia). Solo queste caratteristiche gli permetterebbero di essere uno strumento di autodeterminazione e non la “retribuzione” per lo svolgimento del proprio compito nella società.
Altre perplessità sulla richiesta di reddito sono nate dalla percezione del rischio di una invasiva “monetarizzazione della vita”, nonché dei pericoli insiti nella richiesta di riconoscimento del lavoro “riproduttivo” in quanto lavoro tout court.
C’è da dire che, nonostante l’analisi proposta da Amatrix nel documento parta anche dalla constatazione del non riconoscimento del lavoro riproduttivo delle donne in quanto lavoro, la richiesta di un reddito non parte dalla necessità di retribuire le mansioni svolte gratuitamente dalle donne ogni giorno. Questo ci inchioderebbe allo svolgimento di tali mansioni. Un reddito ci spetta perché il nostro lavoro “crea società”, ma richiedere una quantificazione di questo lavoro e la sua relativa retribuzione sarebbe controproducente. In questo senso ci viene in aiuto una diffusa interpretazione del post-fordismo e del capitalismo cognitivo come sistema di “messa a lavoro della vita”: in tale contesto perde senso la retribuzione di un tempo di lavoro conteggiato in modo classico sia nella “produzione” sia nella “riproduzione”.
Un altro nodo molto discusso domenica è stato quello della contrapposizione tra richiesta di un reddito e battaglia collettiva sui posti di lavoro. Il reddito è visto da molte come una soluzione individuale (possibile stimolo per un ulteriore alienazione delle donne) e in qualche modo “rinunciataria” rispetto alle problematiche del lavoro. Alcune perplessità ha suscitato anche l’idea dell’uscita dal lavoro come orizzonte di senso ed elemento identitario.
È in effetti necessario chiarire che il reddito può essere un’arma valida proprio nelle battaglie sul lavoro: niente sarebbe più efficace della possibilità stessa di sottrarsi ai ricatti cui si è sottoposte. Quanto all’opposizione individualismo-collettività, credo si pecchi di eccessivo “strutturalismo” facendo della sequenza reddito-fine della possibilità di battaglie collettive un automatismo. Le nostre relazioni politiche (e le nostre identità) varcano la soglia (peraltro spesso materialmente inesistente) del posto di lavoro.
Assolutamente condivisa, come si è cercato di mostrare all’inizio, la necessità di non contrapporre una richiesta economica alla critica delle relazioni tra uomini e donne: senza questo orizzonte politico, senza l’urgenza di trasformare l’esistente, il reddito rimarrebbe uno strumento vuoto. Il reddito per l’autodeterminazione non è e non potrebbe essere la soluzione di ogni problema, ma un “grimaldello” per una trasformazione radicale della realtà.
Ultima questione posta al centro della discussione: chi dovrebbe essere l’erogatore di questo reddito, considerando la crisi dello Stato? Come relazionarsi con le istituzioni di cui si criticano in buona parte le fondamenta nel momento in cui proprio a queste ci si rivolge nella pretesa di un reddito?
Sono molte le questioni che restano aperte dopo la discussione di domenica su una proposta che voleva essere la più aperta ed interlocutoria possibile. È per questo che si è pensato di creare un altro momento di confronto collettivo anche a partire dalle osservazioni che sono emerse durante l’assemblea.
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