ALCUNI ARTICOLI APPARSI RECENTEMENTE SULLA LEGGE 40

Procreazione assistita, i magistrati sardi di fatto hanno creato un
precedente
Molte le dichiarazioni delle diverse forze politiche per riaprire il
dibattito parlamentare
Legge 40, "Sì alla diagnosi preimpianto"
Tribunale Cagliari dà ragione a una donna
Aveva chiesto l'esame perchè talassemica. "Ora bisogna rivedere le norme"

 di AUGUSTO DITEL
CAGLIARI – "Ce l'ho fatta, ho vinto la mia battaglia contro una legge
ingiusta. Ora, tra un mese avrò finalmente il mio primo figlio e subito
dopo vorrò averne un altro".

C'è una donna sarda di 37 anni – la chiameremo Federica, con un nome di
fantasia – che esulta per la sentenza emessa ieri dal tribunale di
Cagliari. I magistrati sardi hanno detto sì alla diagnosi preimpianto,
mettendo così in discussione uno dei punti-cardine della legge sulla
procreazione assistita, la numero 40. La signora, di Quartu Sant'Elena,
terza città della Sardegna considerata una sorta di appendice del
capoluogo sardo, è felicissima e con lei e il suo compagno lo sono il suo
ginecologo Gianni Monni il suo difensore Luigi Concas che ieri ha dato la
notizia a Radio Radicale.
E' il secondo passaggio della legge ad essere aggirato nella pratica: il
primo, si era scoperto solo poche settimane fa, si realizza attraverso le
diffide legali ai medici da parte delle pazienti per non ricevere
l'impianto di tre embrioni. Una procedura che porta al congelamento degli
stessi embrioni, pratica anch'essa negata dalle norme in vigore.

La vicenda di Cagliari era partita dal ricorso di Federica che, due anni
fa, aveva chiesto di poter eseguire la diagnosi preimpianto prima di
procedere con le tecniche di fecondazione in vitro perché portatrice di
talassemia, malattia molto diffusa in Sardegna, al pari del diabete
mellito. Con la decisione del giudice l'ospedale e il medico incaricato
controlleranno lo stato dell'embrione, verificando se può essere colpito
da talassemia. Solo nel caso in cui l'embrione sia sano il medico
procederà all'impianto e alla gravidanza.

La decisione dei giudici cagliaritani ha provocato una marea di reazioni,
al punto che ora il dibattito si sposta sulla modifica della legge. Per
Vittoria Franco, senatrice dell'Ulivo e coordinatrice nazionale delle donne
Ds, "si apre finalmente una finestra sulla legge 40, dopo la chiusura
dell'ex ministro Sirchia". Per Filomena Gallo e il radicale Rocco Berardo,
rispettivamente Presidente di "Amica Cicogna Onlus" e vice segretario
dell'associazione Coscioni, la sentenza di Cagliari è un provvedimento che
"interpreta la legge sulla fecondazione assistita alla luce dei dettami
costituzionali, nel rispetto delle norme vigenti e dei diritti dei soggetti
coinvolti nelle tecniche di fecondazione assistita". Per la vicepresidente
dei Verdi, Luana Zanella, si tratta di "un'ottima notizia che apre
finalmente il capitolo di questa norma ingiusta e punitiva".

Di tutt'altro tenore le prese di posizione dell'associazione "Scienza e
Vita" secondo cui "la sentenza rappresenta un caso di eugenetica", mentre
il capogruppo dell'Udc alla Camera, Luca Volontè, chiede al ministro della
Giustizia "di verificare come le leggi vengano applicate dal tribunale del
capoluogo sardo". Quanto alle senatrici teodem dell'Ulivo, Paola Binetti ed
Emanuela Baio Dossi, ricordano che il 9 novembre del 2006 la Consulta aveva
già dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal tribunale di Cagliari: "Una sentenza della Corte
costituzionale non è qualcosa che si possa bypassare con facilità, anche
se le malattie genetiche pongono inquietanti problemi alla scienza, alla
bioetica e alla biopolitica". Per Isabella Bertolini, vicepresidente dei
deputati di Forza Italia, infine, "è inaccettabile che in Italia la legge
40 sulla procreazione medicalmente assistita venga sistematicamente
aggirata".

(25 settembre 2007) 

 

INTERVISTA A RICCARDO VILLANI __La legge, il concepimento e la nascita
Le implicazioni giuridiche di problematiche inerenti i diritti dell'embrione, della donna e della coppia nel suo insieme sono al centro di un acceso dibattito sulla fecondazione medicalmente assistita. La sfera del diritto raccoglie e rielabora le tematiche scientifiche ed etiche che il dibattito solleva. Ne abbiamo discusso con l'avvocato Riccardo Villani, professore di Diritto dei Contratti nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università degli Studi di Ferrara.
26 maggio 2005
Dal punto di vista legale è possibile stabilire quando una cellula, o un insieme di cellule, diventa un soggetto avente diritto?
In realtà questo è uno dei grandi problemi che solleva la legge 40 approvata nel febbraio scorso. In precedenza la questione praticamente non si poneva. Infatti per quanto attiene alla nostra disciplina giuridica, l'articolo 1 del codice civile ci dice che la capacità giuridica si acquista con la nascita. Siamo molto lontani da un discorso legato alla cellula. In passato non si discuteva della possibilità di riconoscere soggettività o meno a una cellula o a due cellule o a un insieme di cellule: l'embrione non esisteva nel mondo del diritto. Quando il codice civile è stato fatto nel 1942, problematiche di questo genere erano lontane anni luce, e quindi, quello che al massimo ci si chiedeva all'epoca era: cosa succede al nascituro, cioè a chi sta per nascere ma non è ancora nato, alla luce di quell'aticolo 1 del nostro codice civile, un articolo fondamentale che in sostanza dice: sei persona nel momento in cui nasci.
Col passare del tempo ci si è accorti che in realtà conveniva anticipare la questione dell'applicazione di certe regole, perché grazie a una maggior sensibilità, ma soprattutto per una maggior conoscenza dei processi biologici e naturali, si è capito che fermarsi alla nascita non andava bene.
Sembra paradossale (per chi si occupa della pratica del diritto non lo è affatto), ma il provvedimento che maggiormente ha affrontato il problema della tutela dell'embrione è la stessa legge numero 194 del 1975 sull'interruzione volontaria della gravidanza. L'articolo 1 di quella legge stabilisce, infatti, che "lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile (…) e tutela la vita umana dal suo inizio". Ciò significa che al di fuori delle ipotesi tassative previste da quella normativa (e che sono legate alla esclusiva tutela della salute psico-fisica della madre) la vita in divenire è intangibile.
La disciplina sull'interruzione volontaria della gravidanza ha individuato una tutela del nascituro molto anteriore al momento della nascita. Nel passaggio che disciplina l'interruzione della gravidanza si è teso a sostenere che lo Stato tutela la vita fin dal suo inizio. Anche se non è chiaro quando si collochi l'inizio; dopodiché dato questo presupposto si sono individuate le ipotesi nelle quali si può ricorrere all'aborto.
La tutela approntata dalla legge sull'aborto tende in realtà a preservare il nascituro, il feto in sviluppo, salvo quei casi specificamente previsti dalla legge in cui è consentito l'aborto, non come fine a se stesso ma nel confronto con il diritto alla salute della madre. Ci sono infatti casi tassativi in cui la salute della madre deve prevalere, e quindi anche in situazioni drammatiche, si è scelto di preferire la vita della madre piuttosto che quella del nascituro, e consetire in questo caso l'aborto.
Una nota sentenza della Corte costituzionale (la 27 del 1975) affermò, infatti, che nell'eventuale contrasto tra i diritti della donna e quelli dell'embrione (nell'ipotesi per esempio di interruzione volontaria della gravidanza) dovevano senz'altro essere ritenuti prevalenti quelli della prima in quanto già persona, rispetto a chi persona ancora doveva divenire. Ciò non significava che all'embrione non dovesse essere riconosciuta una qualche forma di tutela, ma significava solo che la sua posizione, in un'ottica di bilanciamento degli interessi, doveva essere ritenuta subordinata a quella legata alla salute della madre che lo portava in grembo.
Al di fuori di questi casi, il nascituro deve essere tutelato e ha diritto alla vita. In realtà, come dicono tutte le pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione che nel tempo si sono avvicendate, si deve fare il possibile perché la nascita si realizzi.
In ogni caso siamo ancora molto lontani dalla questione posta nella sua domanda. Uno degli elementi che questa legge ha introdotto nell'articolo 1 è la tutela di tutti i soggetti compreso il concepito. Ma continuiamo a essere lontani dal contenuto della domanda: non si parla di una cellula o di un insieme di cellule. Il problema sta proprio lì. Noi stessi siamo un insieme di cellule, siamo il frutto dello sviluppo di quella cellula iniziale da cui abbiamo preso vita, origine. Quindi, un problema centrale nell'ambito del diritto è quello di individuare e definire il concepito; ciò non ha nulla a che fare con questioni bioetiche, morali o religiose. A me e al legislatore dovrebbe interessare questo tipo di problema, e non l'individuazione del momento in cui si può parlare di soggetto di diritto.
La legge fa riferimento al concepito, ma dire "il concepito" è un po' generico, anche in un'ottica di confronto con le legislazioni straniere. La nostra legge ha scelto di non dare alcuna definizione, cioè non dice che cosa sia un embrione. Al contrario le legislazioni straniere affrontano la questione: le legislazioni britannica, svizzera e tedesca prendono una posizione, ognuna a modo suo. Parlare di embrione, come indicato nella nostra legge, si presta evidentemente a interpretazioni. Infatti molti scienziati, come il professor Flamini, sostiengono che l'uso dell'espressione embrione fa riferimento a qualcosa di scientificamente ben preciso, che pare essere diverso dal concetto di semplice insieme di cellule, se con "insieme di cellule" intendiamo la partenza, l'innesco del meccanismo riproduttivo.
L'embrione sarebbe qualcosa che si forma in una fase successiva della gravidanza. Se venisse accettata quest'ultima interpretazione la maggior parte dei problemi connessi con la nuova legge verrebbero meno. La legge 40 impone una lunga serie di divieti, per esempio la crioconservazione, la possibilità di compiere esperimenti con la facoltà di produrre embrioni in numero superiore a tre. Tutti divieti che si riferiscono all'embrione. Allora a me parrebbe un elemento fondamentale stabilire innanzitutto che cosa è un embrione. La legge ha taciuto in merito: questo è un problema al quale non c'è una risposta sicura in questo momento.
La legge è nuova di zecca, bisognerà però vedere come la si applica: se verrà accettata l'idea che l'embrione è cosa diversa dalla semplice cellula uovo fecondata, penso che ciò basti a scardinarla interamente, perché in questa interpretazione molti divieti cadrebbero. Ma l'attuale orientamento non sembra andare in questa direzione. Una recentissima pronuncia del Tribunale di Roma sosteneva che scientificamente non c'è alcuna somiglianza tra una cellula uovo fecondata e l'embrione. Per coerenza con questa premessa, mi aspettavo che si sostenesse di conseguenza che i divieti applicati all'embrione non si possono applicare in un momento precedente, dove di embrione non si può parlare. Invece, stranamente, si conclude dicendo in sostanza che l'intenzione del legislatore è quella di utilizzare la parola embrione in senso non tecnico e di indirizzarla anche alla cellula uovo fecondata, con il ché si ritorna a portare fino all'origine tutti i divieti della legge.
Questo è un punto assolutamente fondamentale. Visto che il legislatore non ha preso posizione, l'interpretazione in via applicativa della legge porterebbe a strade opposte. Una è appunto quella delineata dal Tribunale di Roma. Se si conferma questa linea la legge chiude praticamente la strada quasi a tutto. Ma quella del Tribunale di Roma è la prima pronuncia in merito, non è detto che sia l'unica. Ne sono uscite altre tre in tutto, però riguardavano questioni diverse. Su questo argomento, che io ritengo fondamentale, vi è al momento solo questa.
In ogni caso, ritornando alla domanda, definire soggetto qualche cellula è da un punto di vista giuridico un'affermazione estremamente forte. Inoltre, attribuire all'embrione lo stato di soggetto non basta. Bisogna non solo prendere una posizione, ma occorre che questa scelta si armonizzi con tutto il sistema legislativo che ci sta intorno. Aver preso la posizione di elevare a soggetto l'embrione crea non pochi problemi, e di fatto, non a caso, è un tema che coinvolge uno dei referendum. Infatti quelli che l'hanno proposto tendono a far saltare la prescrizione che riguarda la soggettività dell'embrione: è chiaro che se questo punto della legge salta, ritorniamo al punto di prima; torniamo cioè alla tutela riconosciuta con la disciplina sull'interruzione della gravidanza, ad altre leggi speciali, al fatto che è principio basilare che la vita prenatale vada tutelata, senza però spingersi fino all'embrione in vitro.
Indipendentemente dall'attuale legge, quali sono in generale i diritti legati alla salute della donna che entrano in gioco nell'ambito della procreazione medicalmente assistita?
Diventa una problematica di tipo sanitario in senso generale, non diversa da quella che probabilmente si pone rispetto a ogni intervento sanitario, cioè regolata da principi di rispetto del consenso, principi della libera revocabilità del consenso in ogni momento. L'articolo 32 della nostra Costituzione dice che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà. Da questo principio fondamentale discendono un'infinità di applicazioni pratiche. Semplificando, diciamo che nulla può essere fatto sul corpo di nessuno, che sia uomo o donna, a prescindere dal proprio consenso. Inoltre, il consenso può in ogni momento essere revocato. Tutto quello che attiene agli interventi sulla salute delle persone e ai trattamenti sanitari è sottoposto a questo principio.
La legge 40 apparentemente sembra metterlo in discussione. In realtà si ritiene che non si sia riuscito a intaccare questo principio, per quanto il terzo comma dell'articolo 6 della legge dice che non si può revocare il consenso dopo la fecondazione dell'ovulo. Sembrerebbe una cosa banale ma se ci si riflette, è dirompente nelle conseguenze, perché la fecondazione dell'ovulo è una tecnica che avviene in un qualche ambulatorio medico. Eseguita questa prima procedura della fecondazione in vitro, devono ancora iniziare i trattamenti medici sulla donna. Nel senso che una volta fecondato l'ovulo, successivamente si deve controllare che il processo si sia innescato. Solo dopo si procede con l'impianto nel corpo della donna. La legge dice che non si può più revocare il consenso dopo la fecondazione. I più all'indomani delle legge hanno interpretato tutto ciò come l'impossibilità di revoca del consenso al fine di far continuare il processo innescato. Paradossalmente la donna dovrebbe essere costretta a sottostare all'impianto dell'embrione nel suo corpo, perché non può più revocare il consenso, dopo una prima fase che si è conclusa.
La legge lo dice testualmente. Non mi sembra però che il principio possa essere inteso in questa maniera, perché altrimenti saremmo quasi in un regime di polizia: non si può costringere una donna a subire l'impianto di un embrione nei cui confronti ha cambiato idea. Una scelta differente da parte della donna potrebbe derivare da svariate ragioni, fino al fatto, forse quello meno condivisibile, che la donna ha semplicemente cambiato idea, cioè ieri ne aveva voglia e oggi non ne ha più voglia. Ma ci potrebbero essere casi ben più seri, ragionevoli, come per esempio la morte del marito o del compagno: si ha l'intenzione di avere dei figli a condizione però che abbiano un padre, ma se nel frattempo, dopo la prima fase di fecondazione dell'ovulo, il padre muore, è possibile che una donna possa cambiare idea, e non avere più intenzione di avere un figlio.
Nell'ottica di una straordinaria tutela dell'embrione, sostenere che una volta creato in vitro l'embrione, lo si deve per forza far nascere, è un'interpretazione comunque molto forte. In ogni caso, teniamo presente che c'è sempre la legge sull'interruzione della gravidanza: questo è un gradino insuperabile. Paradossalmente un attimo dopo che la donna fosse stata costretta all'impianto dell'embrione, c'è la legge sull'interruzione della gravidanza che le consente entro non più di novanta giorni di abortire. Quindi mi chiedo che beneficio si è ottenuto nell'ottica di tutela dell'embrione. Nessuna, perché è ovvio che se una donna rifiutasse l'impianto di quell'embrione, un istante dopo che l'avesse paradossalmente subito, chiederebbe l'aborto. Con l'aggravante che si esporrebbe a rischi di interventi. È una norma oggettivamente paradossale.
Inoltre, l'obbligo di impiantare tutti gli embrioni prodotti (stabilito dall'articolo 14 della legge 40) porta con sé l'aberrante conseguenza che anche qualora si accertasse che l'embrione è gravemente malato esso dovrebbe essere ugualmente impiantato. Circostanza che pare del tutto illogica anche alla luce del fatto che, comunque, come detto, la donna potrà ricorrere, un istante dopo l'impianto, all'interruzione della gravidanza.
L'obbligo di produrre non più di tre embrioni per volta, unito al divieto di crioconservarli (sempre previsto dall'articolo 14) fa sì che nell'ipotesi (tutt'altro che remota) di fallimento del primo impianto la donna debba sottoporsi a nuovi cicli di stimolazioni. Con evidente disagio oltre che pericolo fisico e psicologico.
Per concludere, il prevalente desiderio di tutela a tutti i costi dell'embrione rischia di far passare in secondo piano lo stesso diritto alla salute della madre, la quale risulta esposta a disagi e pericoli in nome di non si sa bene che cosa, vista, comunque, la vigenza della legge sull'interruzione volontaria della gravidanza. Ciò, dunque, che non le è permesso quando ancora l'embrione è conservato in una provetta di vetro, le sarà consentito un attimo dopo che la gravidanza dovesse essere iniziata. Il che, francamente, suscita più di qualche perplessità.
Come si sono "parlate" nel tempo la scienza e il diritto?
Nel caso specifico della legge 40, il dialogo tra scienza e legge pare essere stato, purtroppo, un dialogo tra sordi. In sede di lavori preparatori della legge, numerose sono state le audizioni di illustri scienziati e specialisti della materia, che tuttavia non hanno dato i frutti sperati. Pur occupandomi, io, esclusivamente di diritto, devo dire che le ragioni della scienza paiono essere state del tutto disattese dalla legge 40, la quale, a mio avviso, ha perso un'occasione importante. Cioè quella di disciplinare in maniera equilibrata (sottoponendo, magari, a rigorosi controlli) certe attività. Il supremo principio dell'intangibilità dell'embrione in vitro ha fatto sì che tutto ciò che potrebbe portare o all'evoluzione delle conoscenze in materia di malattie genetiche, o alla prevenzione delle stesse, o alla loro cura o, infine, alla semplice riuscita del progetto genitoriale, nel rispetto della salute della madre, sia stato talmente limitato e costretto dai divieti della legge il cui principale (almeno a voler credere ai primi dati statistici pubblicati dai media) a un anno di distanza dall'approvazione della normativa è stato quello, da un lato, della forte diminuzione delle procedure di procreazione assistita e, dall'altro, il notevole incremento dei viaggi all'estero (per chi può permetterseli) verso i centri di procreazione maggiormente permissivi. Senza contare il blocco totale della ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Nota della redazione
È possibile consultare il testo completo della legga 40 che disciplina la procreazione medicalmente assistita all'indirizzo: http://www.parlamento.it/parlam/leggi/04040l.htm

 

Manifesto per una bioetica laica
Cinzia Caporale, Armando Massarenti, Angelo M. Petroni, Stefano Rodotà

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Manifesto per una bioetica laica
 
Questo documento è stato pubblicato originariamente sul Sole 24 Ore (www.ilsole24ore.it) del 1 marzo 1998. Lo riproponiamo perchè i contenuti sono ancora attuali
I progressi scientifici e tecnologici nel campo della procreazione umana hanno aperto allo stesso tempo orizzonti di possibilità e problemi etici e politici di rilevanza straordinaria. Di fronte ad essi, riteniamo che sia un dovere di chi aderisce ad una visione laica — che non significa anti-religiosa, ma semmai anti-dogmatica — proporre alla pubblica discussione principi ed applicazioni che possano essere un punto di riferimento nelle decisioni che i cittadini, come singoli, come società civile e come società politica, saranno chiamati a prendere.
La maniera in cui la procreazione assistita verrà recepita nelle nostre società avrà delle conseguenze profonde, simboliche e fattuali, non soltanto in relazione al problema specifico, ma anche in rapporto a tutta la problematica dei "nuovi diritti", ovvero di quei diritti che sono tipici delle società tecnologiche, e che non possono essere ricompresi né nei diritti "negativi" né nei diritti "sociali" affermatisi negli ultimi due secoli.
 
Nuove opportunità, nuove paure
Nel campo della procreazione assistita, i valori fondamentali che guidano la visione laica sono quelli dell’autonomia degli individui, della loro responsabilità nei confronti degli altri individui e delle generazioni future, e dell’equità nello stabilimento delle politiche pubbliche.
Noi reputiamo che le tecnologie riproduttive già attualmente disponibili costituiscano una opportunità formidabile per un numero grandissimo di individui. Esse permettono, sia pure con disagi e costi personali e sociali non indifferenti, di poter realizzare uno dei fondamentali desideri e facoltà umane, quello della maternità e della paternità, anche là dove le condizioni materiali ed oggettive altrimenti lo impedirebbero.
Per i laici il confine tra quel che è "naturale" e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura. Per questa ragione noi non reputiamo che la procreazione assistita debba venire interamente ricompresa nel concetto di "terapia medica": l’idea stessa di terapia, infatti, presuppone che vi sia una deviazione rispetto a qualcosa che è ritenuto "naturale".
In realtà, sebbene sia vero che per la grande maggioranza degli individui il ricorso alla procreazione assistita è una scelta conseguente alla impossibilità di avere figli attraverso i normali rapporti sessuali, non è necessariamente vero che chiunque scelga la procreazione assistita lo faccia per queste stesse ragioni. La scelta per la procreazione assistita deve venire riconosciuta come l’esercizio di un diritto, e non deve trasformare chi la fa in un "malato", al quale un trattamento viene accordato o rifiutato in base a decisioni prese con la logica della terapia medica.
La logica della terapia medica sottintende un giudizio morale negativo nei confronti della procreazione assistita. Il risultato inevitabile di questa visione è che non soltanto si impongono dei costi di tipo morale a coloro che decidono di ricorrervi, ma si proietta una connotazione negativa sui bambini che nascono grazie ad essa. Quest’ultima è una condizione che è inaccettabile da parte di chiunque reputi che le persone abbiano valore per la loro individualità, e non per il modo in cui sono venute al mondo.
Per lo stesso principio, noi reputiamo che sia inaccettabile una regolamentazione della procreazione assistita che privilegi, de iure o de facto, un certo modello di famiglia rispetto ad altri. Questo significherebbe non prendere atto che, nelle nostre società, il modello "tradizionale" di famiglia non è più universalmente dominante, e che le decisioni degli individui, insieme all’evoluzione dei rapporti sociali ed economici, hanno portato all’emergenza di molte forme diverse, che meritano eguale rispetto.
La riproduzione è una delle sfere essenziali di esercizio dell’autonomia umana, delle decisioni che ognuno prende per sé in libero accordo con altri individui. Il ricorso a tecnologie di riproduzione assistita deve venire inquadrato in questa fondamentale realtà, che è insieme antropologica e propria della civiltà giuridica delle società avanzate.
Come per ogni altro aspetto della realtà sociale, l’autonomia individuale deve venire esercitata in modi e limiti che permettano la compatibilità tra le azioni di tutti i cittadini, ed il rispetto dei diritti di tutti i cittadini, a partire dai più deboli di essi, tra i quali vi sono evidentemente i nuovi nati.
 
 Sfera personale e sfera pubblica
Il principio delle società liberali considera le istituzioni pubbliche come garanzia di libertà ed equità. Il primato del pubblico sul privato coincide col primato delle regole che garantiscono i diritti universali. Questa visione è alternativa rispetto ad ogni visione organicistica, che vede i cittadini come dei minori che devono essere posti sotto tutela da parte delle istituzioni pubbliche. Ed è alternativa con ogni visione che estende il principio delle decisioni politiche maggioritarie ad ogni aspetto della vita dei cittadini. La salvaguardia dei diritti, infatti, viene prima del principio maggioritario.
Anche nel caso della procreazione assistita, il principio delle società laiche e liberaldemocratiche equivale ad affermare che la regolamentazione in questo campo non deve essere il risultato del prevalere delle convinzioni morali espresse da una maggioranza politica. Né la democrazia rappresentativa, né il sistema delle libertà costituzionali potrebbero esistere se l’ambito del diritto non fosse più ristretto di quello delle morali riconosciute e praticate in una data società. La differenza essenziale è che le morali prescrivono comportamenti specifici a coloro che vi aderiscono, e vietano tutta una serie di comportamenti in quanto contrari a certi principi. Diversamente, la funzione primaria del diritto è quella di evitare quei comportamenti che recano un danno certo od altamente probabile ad altri individui specifici o alla società nel suo complesso.
In campo bioetico questa differenza ha delle conseguenze di grande portata. Proprio perché noi viviamo in società pluralistiche, dove non vi è una unica morale, ogni tentativo di costruire i principi giuridici sulla base delle norme di una singola morale sarebbe in contrasto con la democrazia liberale. Questo vale indipendentemente dal fatto che una qualche morale possa essere prevalente o comunque più largamente diffusa di altre, perché i diritti delle persone non sono meno violati per il fatto che venga loro imposto autoritativamente quello che esse accetterebbero volontariamente.
Noi reputiamo che la legislazione sulla procreazione assistita debba rispettare i principi dell’autonomia, e non debba essere il risultato del prevalere di maggioranze politiche "trasversali" che convergono nella volontà di affermare — qualunque essa sia — una certa visione morale particolare.
 
Certezza del diritto, informazione
La procreazione assistita pone dei problemi che le regole giuridiche tradizionali non sono in grado di trattare. Vi è quindi bisogno di regole nuove, che siano il risultato dell’estensione dei principi giuridici condivisi ad una realtà completamente nuova. Le nuove regole dovranno assicurare che l’orizzonte delle possibilità tecnologiche venga sempre ricompreso dentro il principio fondamentale della certezza del diritto.
Coloro che vorranno ricorrere alla procreazione assistita dovranno essere sempre messi in grado di conoscere le conseguenze delle loro decisioni sul piano delle loro responsabilità verso i figli generati, verso gli eventuali coniugi o conviventi, e verso la società. Questo implicherà verosimilmente un mutamento delle norme che definiscono la natura della paternità/maternità e della famiglia, anche in una direzione di non discriminazione sulla base del sesso. Noi reputiamo che questa evoluzione sia assolutamente necessaria, e che sarebbe un grave errore se, sotto la spinta di specifiche morali di stampo religioso, si finisse per lasciare vuoti e incertezze normative in presenza delle quali la procreazione assistita perderebbe parte importante della sua possibilità di aumentare le "chances" di vita di tutti.
Allo stesso tempo riteniamo che un ruolo centrale debba venire attribuito alla nozione di "consenso informato", perché senza di esso i diritti degli individui che accedono alla procreazione assistita rischiano di essere dei diritti meramente formali. Più in generale, la diffusione di una informazione corretta sulle possibilità e sulle conseguenze — per genitori e nascituri — della procreazione assistita ha una funzione essenziale affinché i cittadini siano messi nella condizione di poter scegliere consapevolmente se farvi ricorso o non farvi ricorso. Dare o non dare questa informazione da parte delle istituzioni pubbliche e private non è una scelta neutrale ma ha un valore costituzionale e morale di primaria importanza.
La necessità di evitare danni certi o altamente probabili nei confronti di individui specifici o della società nel suo complesso è particolarmente rilevante quando si tratta di ambiti, come la procreazione assistita, in cui vengono applicate nuove conoscenze e nuove tecnologie di grandi potenzialità ma delle quali solo una parte delle conseguenze sono note. La semplice applicazione di un principio di "utilitarismo negativo", che impone di minimizzare le sofferenze umane, giustifica quindi la necessità di norme giuridiche che pongano limiti all’orizzonte delle possibilità tecnologiche.
Questo significa che le norme giuridiche dovranno verosimilmente comportare dei limiti alla selezione dei gameti e degli embrioni, come pure dei limiti agli interventi di ingegneria genetica. Ma le ragioni di tali limiti non stanno nell’affermazione di un principio astratto di "sacralità della vita", che come tale — si pensi alla questione dello statuto etico e ontologico dell’embrione — è riconosciuto soltanto da alcune visioni morali, ma nella necessità di evitare conseguenze negative per la società. Questi limiti dunque non dovranno estendersi sino alla proibizione di qualsiasi intervento di tipo genetico, ma soltanto di quegli interventi che possono risultare in conseguenze negative inaccettabili, quali la discriminazione tra individui su base biologica.
 
Il problema economico
E' verosimile che la dimensione economica della procreazione assistita assumerà un ruolo determinante per la possibilità che essa diventi una opzione reale per tutti i cittadini che lo desiderino. Come in ogni altro aspetto della realtà sociale, anche qui il problema economico dipende dal fatto che bisogni e desideri eccedono le risorse di cui come singoli e come collettività si dispone. Si pone quindi il problema della loro utilizzazione razionale.
L’evidenza empirica ha provato a sufficienza che l’iniziativa privata, sottoposta alle regole del diritto, porta alla utilizzazione efficiente delle risorse, in modo che il loro consumo da parte di ognuno ne lasci la maggior quantità a disposizione degli altri. Ma l’iniziativa privata è in grado di massimizzare il benessere di ognuno, e quindi quello di tutti, soltanto quando esista un sistema di diritti riconosciuti, e quando ogni individuo disponga di una sufficiente quantità di risorse economiche che gli permetta di accedere allo scambio. Queste due condizioni sono particolarmente importanti nel caso della procreazione assistita.
Per quanto riguarda la prima condizione, l’iniziativa privata è in grado di fornire prestazioni che rispettano le preferenze individuali ed insieme le esigenze complessive della società a condizione che vi sia una chiara definizione di quali sono i diritti di ogni individuo, diritti che stabiliscono tanto la sfera di quello che gli è lecito fare quanto la sfera di quello che gli è vietato perché reca un danno agli altri. Queste due sfere fissano così anche le possibilità ed i limiti dell’iniziativa privata in questo dominio.
Per quanto riguarda la seconda condizione, essa si deve tradurre in politiche pubbliche che mettano tutti i cittadini nella condizione di avere un effettivo accesso ad un livello adeguato di prestazioni. Questo obbiettivo giustifica la presenza della mano pubblica nella gestione diretta della procreazione assistita, ma giustifica anche sistemi diversi, con una redistribuzione diretta di risorse ai cittadini meno fortunati, che li metta in condizione di scegliere, se lo desiderano, le prestazioni fornite dall’iniziativa privata.
Il principio generale che deve quindi ispirare le politiche pubbliche è anche qui quello di aumentare le "chances di vita" di tutti i cittadini. La forte tendenza al decremento demografico e all’invecchiamento della popolazione rende giustificabile da parte dello Stato la destinazione di risorse pubbliche volte ad aumentare la natalità anche attraverso la procreazione assistita, in strutture pubbliche e private. Quel che si deve invece evitare è che l’ideale illiberale di uno "Stato etico" si affermi surrettiziamente attraverso l’implementazione di politiche pubbliche che di fatto rendono obbligate le scelte di coloro che non hanno mezzi economici in abbondanza.
 
Conclusione: dialogo e conflitti
 
La visione laica non vuole essere una versione secolarizzata delle etiche religiose onnicomprensive. Non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni differenti, ma si basa sulla realtà essenzialmente pluralista delle nostre società. E' essa stessa pluralista al suo interno, perché dall’accordo sui principi non segue automaticamente l’accordo sulle soluzioni ad ogni singola questione. Non ricerca il conflitto, ma — al contrario — ritiene essenziale per la civile convivenza che si faccia ogni sforzo per trovare dei principi che possono essere condivisi da credenti e non credenti. Tuttavia, in presenza di conflitti reali, non ne nasconde l’esistenza né cerca di proporre soluzioni fittizie. Vi sono casi in cui i conflitti si possono comporre. Altri in cui bisogna prendere atto della loro irriducibilità.
Anche nel campo della procreazione assistita, come in ogni altra situazione che abbia implicazioni morali, l’atteggiamento laico è quello di trovare soluzioni che rispettino quanto più possibile le convinzioni di chi ha valori diversi. Proprio per questo noi reputiamo che si debbano incentivare, tanto con l’azione pubblica che privata, una ricerca ed una tecnologia che minimizzino i problemi morali che nel campo della procreazione assistita si pongono a credenti e non credenti. Talvolta infatti è proprio il tanto demonizzato "progresso tecnologico" a permettere di risolvere (o dissolvere) i problemi morali.
Noi reputiamo che questa visione laica possa costituire una base al tempo stesso chiara, ragionevole e non pregiudizialmente conflittuale, per una discussione pubblica ispirata ai principi democratici e pluralisti. Siamo aperti al dialogo proprio perché siamo razionalmente persuasi che soltanto dal dialogo possano derivare decisioni adeguate alla straordinaria complessità e alle straordinarie potenzialità della società moderna.

 

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