Aspettatrici
Le donne costituiscono una componente essenziale del pubblico cinematografico dai tempi delle origini (insieme ai bambini, avide consumatrici della nuova invenzione) fino ai giorni nostri (le strategie di marketing degli studios hollywoodiani sono infatti molto attente al pubblico femminile, ché spesso sono le donne a scegliere il film da andare a vedere).
Eppure la presenza femminile nelle schiere di chi il cinema lo fa, e di conseguenza la rappresentazione delle donne e del loro sguardo attraverso le immagini del grande schermo, è (stata) indubbiamente molto limitata, in ogni caso spesso taciuta e relegata nell’ombra. Quasi che, per ragioni storico-culturali, alle donne spettasse soltanto il ruolo di (a)spettatrici[1], conforme a un modello di femminilità intesa come status passivo, modalità di uno sguardo votato fatalmente ed esclusivamente alla passione, e al silenzio (patire e appassionarsi, come nell’immagine muta e struggente della “pulzella d’Orléans” di Dreyer). Paradigma di questo sguardo limitato: la spettatrice armata di fazzoletto che consuma frammenti d’immaginario amoroso nell’oscurità della sala. Genere cinematografico legato per eccellenza al pubblico di genere femminile: i weepies (gli “strappalacrime”), detti anche women’s movies, quintessenza di tale funzione nella Hollywood classica. Ma anche oggi un analogo sguardo, lacrimevole e catartico, viene intercettato dell’industria del divertimento attraverso tutte le declinazioni del romance: dai giovanilistici chick flicks (“pellicole per ragazzine”), che presuppongono un pubblico femminile in un perenne stato adolescenziale, ai male weepies (da L’attimo fuggente in poi), che provano a coinvolgere in questa “femminilizzazione” spesso banalizzante dello sguardo anche il maschio in crisi di fine millennio.
Stelle cadenti
A star is born? Solo recentemente le donne cominciano a occupare posti di potere nel sistema produttivo cinematografico, non solo nei circuiti della produzione indipendente ma anche nella roccaforte dell’industria hollywoodiana. La posizione di sempre maggiore importanza e visibilità sembra non essere più circoscritta al ruolo di rilucente oggetto del desiderio maschile, secondo gli stereotipi che lo star system ha tradizionalmente cucito addosso al corpo attoriale femminile, l’unico degno di violare i confini del buio dell’anonimato spettatoriale per le luci della ribalta.Eppure il fenomeno delle donne che scalano le vette nel mondo dello spettacolo (tipico argomento da copertina di rivista di cinema per la sete di classifiche consolatorie del pubblico statunitense: le donne più potenti di Hollywood[2]), spesso lascia il sospetto di trovata promozionale, illusione patinata quanto effimera di una parità lontana a venire. A vedere la carriera fulminante di una Sharon Stone, ad esempio, qualche anno fa regina di Hollywood oggi relegata in produzioni minori e mediocri, viene qualche dubbio sulla stabilità e durevolezza di questi successi professionali. Ma that’s entertainment, e, da che mondo è mondo dello spettacolo, le stelle spesso si rivelano fuochi d’artificio, a prescindere dal genere.
Peccato che le stelle femminili, si sa, e ancora si accetta, cadono molto prima: appena la polvere del tempo si posa su di loro, la polvere di stelle vola via col vento.
La parte del leone
Anche se in passato le donne hanno frequentemente svolto di fatto funzioni essenziali nella catena produttiva che sta alla base del prodotto filmico[3], questo ruolo, in questo come in molti altri campi, rimane minoritario nei numeri e poco evidenziato, tantomeno analizzato, dagli studiosi (non a caso, la visibilità e il potere sono ancora, e coi limiti suggeriti, appannaggio fondamentalmente delle attrici).
Come la politica, restia ad ogni ipotesi di riforma fattiva delle discriminazioni di genere, rimane terreno di dominio maschile pressoché assoluto, analogamente la politique des auteurs, quella prospettiva teorica – di matrice non a caso maschile – che ha identificato nel regista cinematografico l’autore/responsabile del film come opera d’arte, si trova ancora a fare i conti con un Olimpo cinematografico che gode dell’egemonia assoluta di registi uomini. Per dirla col marchio della Metro-Goldwyn-Mayer (e sulla maschia potenza dei marchi di produzione e delle sigle della majors sarebbe curioso riflettere), gli uomini, nel mondo del cinema, fanno ancora la parte del leone.
Gli esempi di registe, dai casi isolati agli albori del cinematografo fino alle voci autoriali che spiccano qua e là nel cinema contemporaneo[4], si configurano sempre e comunque come eccezioni, all’interno di una categoria che vede ancora il genere ampiamente sottorappresentato.
Uomini & donne: istruzioni per il montaggio
È interessante tuttavia rilevare come alcune figure chiave nel processo della creazione cinematografica, anche se meno gratificate dal riconoscimento del pubblico e spesso marginalizzate negli interessi degli stessi specialisti, come quella del montatore, abbiano goduto di una rappresentanza femminile molto significativa, per molti versi eccezionale.
La presenza e l’importanza che le donne hanno storicamente operato in questa attività, centrale nella produzione cinematografica, non si spiega soltanto attraverso la logica sessista, seppur presente e pesante, che presiede alla divisione del lavoro creativo in ambito cinematografico, relegando la presenza femminile in ruoli considerati minori. Infatti, se anche il montaggio può sembrare a una percezione superficiale un lavoro esecutivo e subordinato (non caso le montatrici coincidevano, in un primo momento, con le segretarie d’edizione, unico ruolo che conserva ancora nel nome la declinazione di genere: la script girl[5]), in realtà chi monta il film ha grandi possibilità manipolative e influenza in maniera spesso decisiva e non del tutto controllabile il prodotto finale. Non è un caso, in questo senso, che spesso una parte decisiva nel controllo del risultato finale del film venga determinata da chi, più spesso la produzione, molto più raramente il regista, detiene il cosiddetto final cut, ovvero l’ultima parola sul montaggio definitivo.
Registi come Renoir, De Sica, Truffaut, Godard, Rivette, Scorsese, Allen[6] hanno scelto, spesso per lunghe collaborazioni, di lavorare, in sala di montaggio, con una donna. Lungi da un caso sporadico, la coppia mista regista/montatrice (ma non mancano casi, molto più rari ma significativi, anche del contrario) sembra essere molto diffusa e ha prodotto risultati creativi spesso considerevoli. In generale la personalità del montatore e del regista necessitano in ogni caso di una forte compatibilità e c’è chi ha scherzosamente etichettato questa stretta collaborazione come un vero e proprio “legame coniugale di quattro mesi”[7].
Ragioni storiche e regioni geografiche
Il numero elevato delle montatrici è dovuto certamente in primo luogo a ragioni contingenti: nell’evoluzione della tecnologia dei processi di lavorazione cinematografica, viene introdotto il montaggio, in un primo momento, come attività manuale, molto legata alla dimensione materiale della pellicola. Montare fu, e in qualche misura rimane, un’operazione vera e propria di “taglia e cuci”. Se all’inizio si lavora molto semplicemente e meticolosamente con una lente d’ingrandimento, le forbici e la colla, anche le prime macchine per montare la pellicola assomigliano per molti aspetti a delle macchine da cucire e il lavoro concettuale riveste numerose affinità con una dimensione artigianale analoga a quella della sartoria, dominio tradizionalmente femminile. In realtà, con l’evoluzione delle tecnologie e dei contesti produttivi, andrebbero fatti dei distinguo: in differenti ambiti geografici e periodi storici le percentuali di montatrici variano anche sensibilmente. Ad esempio, negli Stati Uniti e in Italia, la prevalenza maschile è comunque molto forte, in Francia invece c’è una tradizione consolidata di montatrici donne; inoltre, se agli inizi la tecnologia, come accennato, spingeva a una maggiore connotazione di genere per questa attività, con il montaggio digitale, attualmente predominante, tale caratteristica perde in parte la sua ragion d’essere e, man mano, anche l’eredità di una tradizione femminile va pesando sempre meno.
Queste e altre considerazioni non tolgono tuttavia il ruolo notevole, sul piano quantitativo e qualitativo, che le donne hanno occupato e occupano nell’attività di montaggio, specialmente se raffrontato alla marginalità che sono costrette a subire nel contesto complessivo del film-making.
Montatrici per (pro)vocazione
È nota la provocazione di Godard, che ha contrapposto la ripresa maschile al montaggio femminile, dichiarando di preferire quest’ultimo[8]. Lungi dal voler fissare attributi essenzialistici alle due operazioni creative, sembra tuttavia stimolante, se non accettare aprioristicamente l’affermazione del regista francese, provare comunque a stare al gioco. Senza adesioni fideistiche alla Parola del Maestro, ma senza neppure voler correggere su un piano dimostrativo e oggettivizzante la dichiarazione del regista, può rivelarsi fecondo accettare questo spunto proprio rispettandone la vocazione schematica, paradossale e massimalista.
La mascolinità della regia consisterebbe nell’atto di mettere in scena, come principio razionale di controllo. Il regista dà gli ordini e dà ordine, svolge la funzione del capo, decide e comanda la troupe (in inglese crew, che significa anche ciurma – Oh Capitano, mio Capitano!). Monarca assoluto del set, l’uomo presiede alla fase di ripresa del reale, il re del reale o più reale del re, che dir si voglia. Nella sua essenza, l’atto di riprendere può essere letto come atto intrinsecamente predatorio: vero e proprio atto d’appropriazione dell’universo profilmico (in inglese to shoot significa girare, ma anche sparare: l’uomo manovra la macchina da presa come un fucile in cerca della preda). Inoltre la fase di ripresa coincide con l’uscire fuori di casa. Preceduta dai sopralluoghi, la ripresa è (anche) conquista del territorio, immagazzinamento dei frammenti di mondo da riportare a casa, coi quali nutrire il film in sede di post-produzione.
Per altro verso la componente femminile del montaggio consisterebbe invece in un lavoro di organizzazione e gestione delle risorse accumulate in fase di ripresa. Nella tana/casa/sala di montaggio, il compito della donna è quello aggregativo di mettere insieme, cucire e far coesistere i frammenti di realtà catturati. L’editing sarebbe un lavoro da donna: in campo editoriale la stessa parola ha molte affinità con quella che, in italiano, si chiama “cucina redazionale”. Atto di sottrazione e limatura, il montaggio porta dunque anche con sé l’idea disgregatrice e castrante di un femminile frustrante, che elimina la sovrabbondanza del girato, che sacrifica l’esuberanza maschile in nome del prodotto finito (la proporzione fra materiale girato e materiale utilizzato parte da un minimo di 5:1, ma può arrivare anche a 20:1). Il montaggio appare a molti femminile anche per le qualità che esso richiede: attenzione, capacità di osservazione, ma anche capacità di decidere dove non ci sono regole, di “staccare” dove e quando lo detta la propria sensibilità, il proprio istinto: la necessità di operare scelte di fronte a infinite soluzioni, senza alcun criterio oggettivo e certo di valutarne il grado di funzionamento di queste scelte.
Naturalmente, invertendo i fattori (come nella realtà lavorativa sempre più spesso accade), si può anche pensare a una ripresa femminile e un montaggio maschile. In fondo, il montaggio è il controllo finale sul prodotto filmico, che spesso “violenta” gli elementi di ripresa per creare una realtà nuova, una realtà che poco ha a che vedere con quella del mondo filmato (il montaggio manipola la recitazione, lo spazio reale, il tempo effettivo). Mentre la ripresa può essere intesa certo come una fase in cui si ha il totale controllo sugli elementi di messa in scena, ma può anche essere pensata ed esperita come apertura al mondo, all’accadere, anche casuale, delle cose e delle emozioni davanti alla macchina da presa.
Creature del cielo
Ciò che sembra interessante è, dunque, come nel cinema maschile e femminile spesso svolgano funzioni complementari. In questo senso il paragone spesso utilizzato fra la creazione artistica e il parto appare pertinente nel descrivere la costruzione dello spettacolo cinematografico. Frutto di un lavoro collettivo, esso mette in gioco molteplici capacità e sensibilità, che sono anche, ma non solo, leggibili come caratteristiche complementari tradizionalmente, anche se non naturalmente e indissolubilmente, legate al genere sessuale.
L’ultimo film di Steven Spielberg, A.I. Intelligenza Artificiale, nato da un’idea coltivata per anni ma mai realizzata di Stanley Kubrick, fra le varie possibili interpretazioni, si offre, in maniera piuttosto evidente, anche come un’allegoria del cinema. Il film non solo rappresenta una sintesi del cinema dei due maestri (uno Spielberg più femminile, sentimentale, fiabesco e sognatore che incontra un Kubrick più razionale, freddo, astratto e maschile[9]), ma A.I. si presenta anche come un discorso sul cinema tout court, inteso come l’avventura di uno sguardo meccanico che si è fatto testimonianza (obiettiva) e anima (soggettiva) della nostra epoca. Cos’è infatti un robot capace di amare? Un prodotto meccanico (nell’epoca della riproducibilità tecnica) che pare acquistare vita (anima e azione, emozione e movimento: unicità?)? Uno sguardo robotico che registra la vita (tanto da fungere da prezioso reperto dell’umanità, anche dopo la sua estinzione)? Cos’è David, il bimbo artificiale creato da Spielberg, se non il cinema stesso?
Senza scendere nei dettagli (di cui il film è ricchissimo), è possibile vedere in David una perfetta sintesi dell’idea di cinema che domina l’intera filmografia di Spielberg: il bimbo creato da uno scienziato/regista per amare una madre/montatrice (che gli detta una sequenza di parole per legarlo eternamente a sé), non a caso compie il proprio viaggio/ricerca verso una dimensione utopica dell’esperienza umana, intesa come sogno e felicità. Raggiungere queste mete (tipicamente d’oltreoceano – il sogno americano e la felicità il cui perseguimanto è sancito fin dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo intrinsecamente umane), nella forma fantasmatica e reale insieme di una vita che dura lo spazio di un giorno, è una delle magie, se non la Magia del Cinema, luogo artistico della condensazione dell’esperienza e, in rari casi, distillato dell’eccellenza di questa (Hitchcock lo definisce infatti “La vita, senza le parti noiose”). Ma il viaggio di David è insieme viaggio nel futuro e ritorno alle origini, congelamento del tempo e tuffo nell’acqua (liquido amniotico e brodo primordiale) che ha sommerso la terra intera, inondato e distrutto la città degli uomini (Manhattan), lasciando la macchina emotiva David come unica vestigia dell’avventura della Storia. Se questo ritorno alle origini transita per il padre-creatore-scienziato (di cui David è il “brainchild”), il compimento del viaggio, e la realizzazione dell’aspirazione di Pinocchio (divenire un bambino in carne e ossa, un “child” e basta), accade soltanto nel ricongiungimento, momentaneo e insieme assoluto, con l’immagine-corpo del materno. Il sonno/sogno, incestuosamente edipico, che ritaglia l’immagine finale (infinitamente aperta) del film di Spielberg, possiede l’intensità dolorosa e pacificata delle ultime parole del Faust di Goethe: “L’eterno femminino ci trae verso l’alto”. Come se solo l’amore materno, il principio femminile potesse dare vita e infondere armonia (e al contempo regalare definitezza, dunque pace, forse morte) ai mille Frankenstein creati dal principio maschile, nell’isolamento delle torri di cristallo. Se l’uomo-tecnico è in grado di dar vita a una bestia meccanica senziente, di fronte ad essa solo la cura amorosa di uno sguardo suturante e rimarginante femminile è in grado di rivelare la bellezza e rendere magicamente invisibili – come nel più perfetto dei montaggi hollywoodiani – le giunte, le fratture, i frammenti, in una parola la mostruosità. Partendo da un caotico assemblaggio di velleità e sofferenze, intuizioni e costruzioni solo una coniugazione dei due principi può provare a partorire la perfezione o, quantomeno, l’intensità del cinema[10].
N.B. Il testo necessiterebbe, ovviamente, di un editing femminile
[1] Si noti l’attenzione che una tendenza recente degli studi statunitensi di area femminista sul cinema hanno dedicato al ruolo dello spettatore, alla composizione storica dell’audience e alle sue trasformazioni storiche (cfr. Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, 1993, in particolare il capitolo Immagine, genere, differenza)
[2] La rivista Premiere dedica all’argomento periodiche special issues
[3] Si veda, ad esempio, il catalogo del Festival di Taormina del 1988 a cura di Piera Detassis e Carmelo Marabello Genere: femminile, registe e sceneggiatrici nel cinema classico americano, una delle prime e rare pubblicazioni italiane sul tema donne che fanno cinema. Il rapporto fra donne e cinema è stato infatti più spesso affrontato, sulla scorta dell’abbondante pubblicistica statunitense, nei termini dell’immagine della donna prodotta dal cinema piuttosto che delle donne di cinema produttrici d’immagini
[4] Per un censimento assai accurato delle donne registe si veda Laura Modini, L’occhio delle donne, Associazione Lucrezia Martinelli, 1995
[5] Per un profilo di questa figura professionale si rimanda al capitolo La segretaria d’edizione in Michel Chion, I mestieri del cinema, Grafica Santhiatese Editrice, 1999
[6] Si veda, per dati più precisi e un primo orientamento, il Dizionario minimo dei montatori in Diego Cassani, Manuale di montaggio, Utet, 2000
[7] Jacques Comets, citato nel capitolo La collaborazione nel montaggio tradizionale in Dominique Villain, Il montaggio al cinema, Lupetti, 1996
[8] La dichiarazione di Godard nonché uno sviluppo della questione qui ripresa si trovano in Dominique Villain, Il montaggio al cinema, op. cit., in particolare nel capitolo Maschile/Femminile
[9] Per un analisi interessante dei rispettivi apporti creativi dei due autori si rimanda all’ottima ed equilibrata recensione di Jonathan Rosenbaum sul Chicago Reader, rintracciabile in rete
[10] Jacques Rivette sostiene che il cinema non è l’arte della perfezione, ma dell’intensità