Qualche anno fa avrei parlato dell’oppressione delle donne e dei movimenti delle donne sorti in tutto il mondo, di storie occultate sulla resistenza delle donne e dei loro limiti, del fallimento di tutta la politica precedente nel riconoscere l’universale ombra del patriarcato e della speranza che le donne ora, in un periodo di crescente consapevolezza e di urgenza globale, possano superare ogni confine nazionale e culturale per creare una società libera dalla sete di potere, in cui “la sessualità, la politica, … il lavoro, … l’intimità …ed il pensiero stesso saranno trasformati” . Avrei detto tutto questo come femminista, alla quale è "capitato" di essere una cittadina bianca degli USA, consapevole dell’abilità del mio paese di esercitare la violenza e l’arroganza del potere, e nello stesso tempo, semi-distaccata da quel governo, avrei potuto citare senza pensarci due volte una frase di Virginia Wolf nelle Tre Ghinee "come donna non ho una patria, come donna non voglio una patria, come donna la mia patria è il mondo intero”.
Ognuno di noi può vedere la sua casa come una piccola macchia in un enorme paesaggio o come il centro dal quale dei cerchi si dilatano in un universo sconosciuto. Quello che ora mi preme è il problema del sentirsi al centro, ma il sentirsi al centro di cosa? Come donna ho una patria; come donna non posso liberarmi di quella patria solo condannando il suo governo dicendo per ben tre volte "come donna la mia patria è il mondo intero". Lealismo tribale a parte, anche se le nazioni-stato sono oggi solo pretesti usati dalle varie multinazionali per servire i loro interessi, io ho bisogno di sapere come un luogo sulla carta geografica possa avere un posto nella storia entro il quale come donna, ebrea, lesbica e femminista io mi formo e cerco di creare. Non desidero iniziare da un continente, da una nazione o da una casa in particolare, ma dal posto più vicino geograficamente, ossia il corpo. È proprio qui che, almeno, io so di esistere, si, quell’essere umano vivente che già Karl Marx definì "la prima premessa di tutta la storia umana" . Tuttavia non è come marxista che sono approdata a questa scoperta, e neanche tutti i miei studi storici, letterari, scientifici e teologici mi sono stati d’aiuto nel processo della conoscenza di me stessa. Ci sono arrivata da femminista radicale, con la politica della gravidanza e della maternità, con la politica dell’orgasmo e dello stupro, dell’incesto, dell’aborto, con la politica del controllo delle nascite, della sterilizzazione forzata, della prostituzione e del sesso coniugale e con quella che è stata definita liberazione sessuale, con l’eterosessualità e con il lesbismo. Le femministe marxiste sono state delle pioniere in questo campo ma per molte donne che ho conosciuto, il desiderio di cominciare dal corpo femminile da sole, è stato interpretato non come l’applicazione del principio femminile alle donne ma come terreno fertile per poter esprimere il senso di autorità delle donne, in altre parole è stato interpretato non per trascendere il corpo ma per ottenerlo. Per ricollegare il nostro pensiero e le nostre parole con il corpo di questo particolare essere umano che è la donna, cominciamo dal problema madre.
Cominciamo con i fatti e rivediamo la lunga lotta contro il privilegio e l’eminenza dell’astrazione. Probabilmente è questo il punto centrale del processo rivoluzionario, sia che lo si voglia chiamare marxista, terzomondista, femminista o in tutti e tre i modi. Molto tempo prima del diciannovesimo secolo, le streghe empiriste del Medio Evo europeo si affidavano ai loro sensi e con rimedi rudimentali lottavano contro i dogmi anti-empirici, anti-materiali e poco sensibili della Chiesa, morendone così a milioni. "Una rivolta contadina guidata dalle donne?", in ogni caso una ribellione contro un’idolatria di pure idee, contro la credenza che le idee hanno una vita propria e fluttuano a lungo sulle teste della gente comune, le donne, i poveri e gli emarginati . Le teorie separate dalla quotidianità della gente ritornano alla gente stessa sotto forma di slogan. La teoria – la capacità di vedere le possibilità, il mostrare la foresta e anche gli alberi – è come la rugiada che sale dalla terra e sotto forma di pioggia ritorna alla terra in un processo senza fine.
Ho appena scritto una frase ma l’ho cancellata, in essa ho detto che le donne hanno sempre compreso la lotta contro la libera e fluttuante astrazione anche quando erano intimidite dalle idee astratte. Non voglio scrivere quella frase qui, ora, quella frase che comincia con "le donne hanno sempre…". Abbiamo iniziato qui il discorso respingendo frasi che cominciano con "le donne sono state sempre e ovunque asservite all’uomo" oppure "le donne hanno sempre avuto l’istinto materno". Se abbiamo capito qualcosa in questi anni sul femminismo del XX secolo, è che quel "sempre" cancella tutto quello che veramente abbiamo bisogno di sapere: quando, dove e in quali condizioni può essere vera quella frase?
È assolutamente necessario porsi questi interrogativi – dove, quando e in quali condizioni le donne hanno agito o sono state manipolate? Tanta è la gente che lotta contro l’asservimento ma ora e anche in futuro è importante che si parli dell’asservimento specifico della donna, indagando nel nostro specifico luogo, il corpo femminile. È importante che si parli soprattutto della nostra attiva presenza come donne. Abbiamo creduto, ed io continuo a crederci, che la liberazione delle donne fosse come un cuneo inserito in tutto il pensiero radicale, che potesse allargare quelle strutture che ancora oppongono resistenza, liberare l’immaginazione e unire ciò che è stato pericolosamente diviso. Come abbiamo già detto, concentriamoci ora sulle donne: facciamo in modo che gli uomini e le donne si sforzino con coscienza ad ascoltare ciò che le donne dicono; insistiamo su quei particolari momenti che consentono a più donne di parlare; ritorniamo alla terra, intesa non come il paradigma "donne", ma come un luogo, un posto.
Forse abbiamo bisogno di una moratoria quando diciamo "il corpo" perché è anche possibile astrarre "il" corpo. Quando scrivo "il corpo", non vedo niente di particolare. Scrivere, invece, "il mio corpo" mi spinge all’interno dell’esperienza vissuta e nella sua particolarità: vedo cicatrici, sfregi, appannamenti, danni, perdite ma anche tutto ciò che mi fa piacere. Le ossa ben nutrite dalla placenta; i denti di una persona borghese che è stata visitata due volte all’anno dal dentista sin dall’infanzia. La pelle bianca, segnata dalle cicatrici di ben tre gravidanze, da una sterilizzazione consapevole, da un’artrite cronica, da quattro operazioni, da depositi di calcio, da nessuno stupro e da nessun aborto, da lunghe ore alla macchina da scrivere, la mia non quella di un ufficio, e così via. Dire "il corpo" mi offre un’altra prospettiva rispetto alla prima. Dire "il mio corpo" riduce la tentazione di asserzioni grandiose.
Ora vi racconterò i primi e ovvi fatti della vita di questo corpo bianco e di genere femminile o, se volete, di genere femminile e bianco. Sono nata nel reparto bianco di un ospedale che separava nella sala parto le donne nere da quelle bianche e i bambini neri da quelli bianchi nel nido, proprio come separava i corpi neri da quelli bianchi nell’obitorio. Mi hanno definita bianca prima ancora che femmina. Anche se inizio dal mio corpo devo dire che sin dal principio quel corpo aveva più di un’identità. Quando fui portata via dall’ospedale nel mondo, venivo vista e trattata da femmina e anche da bianca sia dai bianchi che dai neri. Sono stata situata in base al colore e al sesso allo stesso modo di una bambina di colore, sebbene l’implicazione di un’identità bianca veniva mistificata dalla presunzione che i bianchi sono al centro dell’universo. Posizionarmi nel mio corpo significa molto di più che capire di avere una vulva, un clitoride, un utero e un seno… Significa riconoscere questa pelle bianca che mi ha consentito alcune cose ma non altre.
Il corpo in cui sono nata non era solo di genere femminile e bianco, ma anche ebreo e questo ha giocato in quegli anni, geograficamente parlando, una parte determinante. Avevo quattro anni ed ero una Mishling quando cominciò il Terzo Reich. Poteva essere Baltimora o Amsterdam o Praga o Lòdz, la giovane scrittrice di dieci anni potrebbe non avere alcun indirizzo. Io sono sopravvissuta a Praga, ad Amsterdam, a Lodz e alle stazioni ferroviarie dei deportati, sarei potuta essere una di quelle persone. Il mio nucleo sarebbe, forse, potuto essere il Medio Oriente o l’America latina e la mia lingua sarebbe potuta essere un’altra. Ma sono una ebrea nord-americana, nata e cresciuta a 3.000 miglia dalla guerra europea.
Cerchiamo, come donne, di vedere dal centro o nucleo d’origine. "La politica", ho scritto una volta, "del farsi le domande delle donne" . Non siamo "il problema donna", siamo donne che fanno domande, che si chiedono. Cercando di vedere di più e altrettanto consapevole di essere vista, mi sono trovata nella luce, sono cambiata. Ho cominciato a frantumare con pazienza il falso universale maschile e accumulando pezzo su pezzo esperienze concrete, confrontandole, ho cominciato a discernerne le modalità. Ho provato rabbia e frustrazione verso il rifiuto dei marxisti o della sinistra di affrontare le problematiche femminili e questo tipo di lotta. E’ facile ora semplificare questa delusione, ma la rabbia è stata tanta e profonda, la frustrazione reale, sia nelle relazioni personali che nelle organizzazioni politiche. Nel 1975 ho scritto: “Molto di quello che viene strettamente definito "politica" sembra risiedere nel desiderio di certezze anche a costo dell’onestà, per un’analisi che, una volta fatta, non ha bisogno di essere riesaminata. Ed è questo il motivo per cui le donne sono così indifferenti al Marxismo ai nostri giorni” . Là dove la politica si è esternata, è stata sentita come un punto morto, tagliata fuori dalle vite quotidiane di donne e uomini, e si è chiusa in un gergo rarefatto, in un gergo di élite, una sorta di enclave, si è settarizzata, alimentandosi degli errori di tutti i suoi membri. Ma anche se ci siamo scrollate di dosso Marx, i marxisti accademici e la sinistra settaria, alcune di noi, definitesi femministe radicali, hanno capito meno cosa fosse la liberazione delle donne che la creazione di una società senza dominatori; non volevamo indicare altro che la via per rinnovare tutti i rapporti tra gli esseri umani. Il problema era che non sapevamo quello che volevamo dire quando dicevamo "noi".
Il patriarcato non esiste in alcun luogo allo stato puro; siamo le ultime ad aver messo piede in un groviglio di oppressioni maturatesi per secoli. Questo non è il vecchio gioco da bambini dove tu scegli un filo di un colore della rete lo ripercorri all’indietro per trovare il tuo premio, ignorando gli altri , il tutto per puro svago. Il premio è la vita stessa, e molte donne nel mondo devono lottare per le loro stesse vite e, allo stesso tempo, su diversi fronti.
Noi … spesso troviamo difficile separare la razza dalla classe e dall’oppressione sessuale perché nelle nostre vite le percepiamo molto spesso in modo simultaneo. Sappiamo che c’è un qualcosa come l’oppressione razzial-sessuale che non è solo e unicamente razziale né solo sessuale… Dovremmo distinguere la reale situazione di classe delle persone che sono lavoratori caratterizzati da una razza ed un sesso di appartenenza; l’oppressione razziale e sessuale è un fattore determinante e significativo nella loro vita lavorativa ed economica. Questa citazione fa parte dello statuto del 1977 del Collettivo Combahee River, uno dei più importanti documenti del movimento delle donne negli USA, che offre una definizione del femminismo nero chiara e inflessibile sull’esperienza della simultaneità delle oppressioni. Abbiamo teorizzato anche sulla lotta contro l’astrazione libera.
Dobbiamo riconoscere la natura circoscritta del (nostro) essere bianche/i. Sebbene siamo state emarginate come donne, abbiamo pure emarginato altri in qualità di produttrici di teoria bianca e occidentale, perché la nostra esperienza di vita è, senza alcun dubbio, bianca, perché anche le nostre "culture delle donne" sono radicate in qualche tradizione occidentale. Avendo riconosciuto il nostro posizionamento, avendo dato un nome alla terra dalla quale proveniamo, abbiamo dato per scontate queste condizioni creando confusione tra quello che volevamo, le nostre aspettative bianche ed occidentali e quelle propriamente femminili, abbiamo avuto paura di perdere la centralità dell’uno anche se tendevamo (rivendicavamo l’altro) verso l’altro.
Come definisce la teoria una femminista bianca? È qualcosa che tutte le donne bianche producono o che fanno solo le scrittrici? Come definisce "un’idea" il femminismo bianco occidentale? Come lavoriamo per costruire una coscienza femminista bianca ed occidentale che non sia semplicemente centrata su se stessa e che resista ai limiti della cultura bianca?
È stato attraverso la lettura di opere e anche attraverso le azioni e i discorsi e i sermoni di cittadini neri statunitensi che ho cominciato a capire il mio essere bianca come punto di posizionamento del quale avevo bisogno di sentirmi responsabile. Anche la lettura di poesie di donne contemporanee cubane mi ha aiutato a capire il nord America come luogo che ha così profondamente influenzato (plasmato) il mio modo di vedere le cose e le mie idee, un luogo del quale ero in parte responsabile.
Ho viaggiato poi in Nicaragua, dove in una terra povera, in una società di soli 4 anni che si prodigava ad estirpare la miseria, sotto le colline ai confini con l’Honduras, potevo sentire fisicamente alle mie spalle il peso degli Stati Uniti d’America, del suo esercito, dei suoi vasti interessi economici, dei suoi mass media; riuscivo a capire cosa significasse, dissidente o meno, essere parte di quel potere, di quella fredda ombra che proiettiamo ovunque nel sud del mondo.
Negli Usa a molte persone è stato impedito di sviluppare il proprio processo di crescita ed i loro movimenti. Per 40 anni abbiamo sentito dire che siamo i guardiani della libertà, mentre dietro la "Cortina di Ferro" c’è solo manipolazione e terrore. Da qui la caccia alle streghe negli anni ’50. La sensazione di falsità, di mistero e la paranoia che circondava il partito comunista americano dopo le dichiarazioni di Krushchev del 1956 portò alla perdita di 30.000 membri in poche settimane e quei pochi che rimasero, rimasero, in realtà, a parlare solo di questo. Chiunque fosse ebreo, omosessuale o appartenente a qualunque altra minoranza diversa, veniva sospettato di essere "comunista". E fu così che una coltre di neve si posò sul radicalismo statunitense. E, sebbene parte del movimento femminista nord americano nacque dai movimenti neri degli anni ’60 e dalla sinistra studentesca, le femministe non hanno solo sofferto le esperienze femminili rimosse e distorte, ma anche la rimozione e la distorsione generale dei grandi movimenti progressisti.
Il movimento per il cambiamento risiede nei sentimenti, nelle azioni e nelle parole. Tutto ciò che circoscrive o mutila i nostri sentimenti, come il pensiero astratto, le rigide lealtà tribali, ogni tipo di ipocrisia, presunzione e l’arroganza di ritenerci al centro di tutto ci rende più difficile l’agire che resta reattivo e ripetitivo. È duro guardare indietro di un anno o cinque anni ai limiti della mia conoscenza; come riuscivo a guardare senza vedere? E come riuscivo a sentire senza ascoltare? Può essere difficile essere generose/i con quelle/i che eravamo in passato e continuare a credere al nostro percorso specialmente negli USA dove le identità e le lealtà sono state messe da parte senza alcun problema nell’intento di renderci tutti "americani". Ma come, se non tramite noi stesse, possiamo capire ciò che spinge gli altri a cambiare? Le nostre vecchie paure e i nostri rifiuti, cosa potrebbe aiutarci a farle andar via? Che cosa ci porta a decidere che dobbiamo rieducare noi stesse/i e anche quelli di noi con una "buona" educazione? Una vita politicizzata dovrebbe affinare sia i sensi che la memoria.
La difficoltà di dire "io" è una frase tratta dalla scrittrice della Germania orientale Christa Wolf . Ma una volta espressa, mentre ci rendiamo conto di voler andare oltre, non è difficile articolare il "noi"? Non puoi parlare per me. Non posso parlare per "noi". Due modi di pensarla: non c’è nessuna forma di liberazione che sappia dire soltanto "io". Non c’è nessun movimento collettivo che possa parlare per ognuno di noi fino in fondo. E così, anche i pronomi comuni diventano un problema politico.
* 64 missili cruise a Greenham Common e a Molesworth
* 112 a Comiso
* 96 missili Pershing II nella Germania occidentale
* 96 per il Belgio e l’Olanda.
Questa è la previsione per i prossimi anni.
Negli Usa e in Europa diranno no, a tutto questo e alla militarizzazione del mondo, migliaia di donne.
Un approccio che fa risalire il militarismo al patriarcato e il patriarcato alla qualità fondamentale del mondo maschile che può essere demoralizzante e anche paralizzante… Forse è possibile essere meno preoccupati sulle "origini delle cause". Potrebbe essere più utile chiedersi: come si ripetono questi valori e questi comportamenti di generazione in generazione ? La valorizzazione dell’essere uomo e della maschilità. Le forze armate come l’estrema rappresentazione della famiglia patriarcale. L’idea arcaica delle donne come "home front" anche mentre i missili esplodono nei cortili del Wyoming e del Mutlangen. La crescente preoccupazione che un movimento anti-nucleare e anti-militarista deve essere un movimento socialista, anti-razzista e anti-imperialista. Inoltre, non è abbastanza preoccuparsi per la gente che conosciamo, gente come noi, noi stesse/i. E non ci rende più forti l’arrenderci ai terrori astratti del puro annichilimento. Il movimento anti-nucleare e anti-militarista non può spazzar via i missili come movimento che vuole salvare la civiltà bianca dell’Occidente. Il movimento per il cambiamento è un movimento che cambia, che cambia se stesso, che si libera della propria mascolinità, che si libera della sua occidentalità, diventando un peso critico che dice in tante voci, lingue, gesti e azioni: deve cambiare, noi stesse/i possiamo cambiarlo. Noi che non siamo le/gli stesse/i, noi che siamo molte/i e non vogliamo essere le/gli stesse/i.
Cercando di studiare me stessa durante la stesura di questo testo, spesso ritorno a Sheila Rowbotham, la femminista socialista britannica che ha scritto Beyond the Fragments:
«Un movimento ti aiuta a superare una parte della distanza opprimente generata dalla teoria e questo è stato ed è una … continua meta creativa della liberazione femminile. Ma alcuni sentieri non sono tracciati e le nostre basi d’appoggio svaniscono … considero ciò che scrivo come una parte di un’affermazione più ampia che sta iniziando. Io stessa faccio parte della difficoltà del movimento, la difficoltà non è fuori di noi ma dentro».
Anche le mie difficoltà non sono esterne, tranne nel sociale. Non credo più, i miei sentimenti non mi permettono di credere che l’occhio dei bianchi vede dal centro. Tuttavia, spesso mi ritrovo a pensare come se ancora credessi che questo sia vero, o che la mia capacità di pensiero ristagna. Mi sento in uno stato di afasia, come se il mio cervello e il mio cuore rifiutassero di parlare l’uno all’altro. Il mio cervello, un cervello di donna, ha esultato nel rompere i tabù contro il pensiero femminile, è decollato col vento dicendo, io sono la donna che fa le domande. Il mio cuore impara in modo più umile e laborioso che i sentimenti sono inutili senza i fatti, che in fondo, ogni privilegio è ignorante.
Gli Stati Uniti non sono mai stati una nazione bianca, anche se per molto tempo hanno servito gli interessi degli uomini bianchi. Il Mediterraneo non è mai stato bianco. L’Inghilterra, l’Europa settentrionale, anche se sono state totalmente bianche, non lo sono più. In una libreria di sinistra a Manchester in Inghilterra, un poster del Terzo Mondo diceva: NOI SIAMO QUI PERCHÉ VOI ERAVATE LI’. In Europa gli Ebrei, gli abitanti originari del ghetto, sono sempre stati considerati come un bersaglio razzista, sottoposti a leggi speciali e a particolari tasse di entrata (nel ghetto), costretti a spostarsi da un luogo all’altro e massacrati. Sono stati considerati capri espiatori e alieni, non sono mai stati veramente visti come europei ma come membri di un mondo più oscuro da controllare ed eventualmente sterminare. Oggi le città europee hanno nuovi capri espiatori, ovvero la diaspora dei vecchi imperi coloniali. L’antisemitismo è un modello di razzismo, o il razzismo lo è per l’antisemitismo? Ancora una volta, mi chiedo dove ci conduca questa domanda. Non dovremmo iniziare da qui dove ci troviamo, quarant’anni dopo l’olocausto, al centro della violenza medio-orientale, al centro del potente fermento del Sudafrica, non dunque in un dibattito sulle origini e sui precedenti ma nel riconoscimento delle oppressioni simultanee?
Sto pensando molto alla preoccupazione sulle origini, mi sembra solo un modo di fermare il tempo nel suo fluire. I triangoli sacri neolitici, i vasi minoici con gli occhi fissi e con seni, le figurine femminili dell’Anatolia, non erano esempi concreti, come i frammenti di Saffo, di culture antiche rappresentanti l’affermazione femminile, culture che godettero secoli di pace? E non sono state pure immagini magnetiche di riflessione che hanno catturato il nostro sguardo e lo hanno immobilizzato? L’attività umana non si è fermata a Creta o a Çatal Hüyük. Non possiamo costruire una società libera dall’autorità che ci riporti a qualche tribù o qualche città di tanto tempo fa. Il costante potere spirituale di un’immagine vive nell’interazione tra ciò che ci fa ricordare un qualcosa, ciò che ci ritorna in mente e le nostre continue azioni nel presente. Quando il labrys diventa lo stemma per il culto delle dee minoiche, quando la vestale del labrys ha cessato di chiedersi che cosa sta facendo su questa terra, là dove il suo amore di donna la coglie, anche il labrys diventa un’astrazione, liberata dal caldo e dalla frizione dell’attività umana. La stella ebraica sul mio collo deve servirmi sia come monito e sia come simbolo per continuare a cambiare il mio senso di responsabilità.
Quando leggo che nel 1913 le marce in massa delle donne in Sudafrica provocarono l’annullamento delle leggi sul permesso di entrata, e che nel 1956, 20.000 donne si riunirono a Pretoria per protestare contro le leggi speciali per le donne, che la resistenza a queste leggi veniva portata avanti nei villaggi di una terra remota e punita con sparatorie, bastonate ed incendi; e che nel 1959, 2.000 donne dimostrarono a Durban contro leggi che prevedevano birrerie per i soli uomini africani criminalizzando le tradizionali distillerie domestiche delle donne; e che nello stesso tempo, le donne africane hanno giocato un ruolo maggiore insieme agli uomini nella resistenza all’Aparthaid, devo chiedere a me stessa perché mi ci è voluto così tanto tempo per imparare questi capitoli della storia delle donne e perché la leadership e le strategie delle donne africane non sono state riconosciute come teoria in atto dal pensiero femminista occidentale bianco. In un libro di due uomini intitolato South African Politics pubblicato nel 1982, c’è solo una voce sotto il nome "Donne" e nessun altro riferimento alla leadership politica delle donne e alle azioni di massa) . Quando leggo che le difficoltà maggiori nei conflitti del decennio passato in Libano sono state vissute politicamente da donne attraverso linee di classe, tribali e religiose, da donne che hanno lavorato ed insegnato insieme nei campi dei rifugiati e nelle comunità armate, sforzandosi con la lotta durante la guerra civile e l’invasione israeliana, sono costretta a pensare che Iman Khalife – la giovane insegnante che cercò di organizzare a Beirut, al confine tra i territori cristiani e musulmani la marcia silenziosa pacifista che fu soppressa a causa della minaccia del massacro dei suoi partecipanti – e altre donne come lei non sono venute fuori dal nulla. E purtroppo, noi femministe occidentali che viviamo in condizioni diverse da quelle descritte non siamo affatto incoraggiate a conoscere questa storia.
In tutto il globo ci sono donne che si alzano prima del sorgere del sole; ci sono donne che si alzano prima degli uomini e dei bambini per pestare il riso, per accendere il fuoco, per preparare la pappa ai bambini, il caffè, per stirare pantaloni, per intrecciare i capelli, per tirar su l’acqua per un giorno intero dal pozzo, per bollire l’acqua per il tè, per fare il bagno ai bambini che vanno a scuola, per raccogliere le verdure e portarle al mercato, per correre a prendere l’autobus per andare a lavoro. Non so quando queste donne dormano. Nelle grandi città, all’alba, ci sono donne che ritornano a casa dopo aver pulito gli uffici tutta la notte, o dopo aver lucidato le sale degli ospedali o dopo aver tenuto compagnia ai vecchi, ai malati ed ai moribondi, spaventati nell’ora della loro morte. “In Perù le donne impiegano delle ore a ripulire i fagioli da piccole pietre, la farina ed il riso; sgranano i piselli, puliscono i pesci e tritano le spezie in piccoli mortai. Comprano ossa o trippa al mercato e cucinano zuppe economiche e nutrienti. Riparano vestiti fino a che questi non sono totalmente consunti e cercano i grembiuli scolastici più a buon mercato, che possono pagare solo con lunghe rateizzazioni. Vendono vecchie riviste in cambio di bagnarole di plastica e acquistano giocattoli e scarpe di seconda mano. Fanno chilometri per trovare un rocchetto di filo al prezzo più basso possibile". Questa è una tipica giornata di lavoro che non è mai cambiata, il lavoro femminile che serve alla sopravvivenza del povero. Con luce fioca vedo ancora questa donna e così anche la sua sveglia interiore che spinge fuori dal letto le sue membra pesanti e forse anche doloranti. Accettando nel suo corpo l’ultimo freddo spicchio della notte e andando incontro al sole nascente, sento il suo respiro che dà vita alla sua stufa, alla sua casa, alla sua famiglia. Nel mio mondo nord americano, bianco, hanno cercato di dirmi che questa donna non pensa, né tantomeno riflette sulla sua vita; che le sue idee non sono idee reali come quelle di Karl Marx o di Simone de Beauvoir e che i suoi calcoli, la sua filosofia spirituale, le sue attitudini per la legge e l’etica, le sue decisioni politiche di emergenza sono solo reazioni istintive o condizionate. Hanno anche cercato di dirmi che solo un certo tipo di persone può fare teoria; che solo la mente bianca colta è capace di formulare qualsiasi cosa; che il femminismo bianco borghese sa per "tutte le donne" e che sia da prendere sul serio solo un pensiero formulato da una mente bianca.
Negli USA, la teoria bianco-centrica non si è impegnata adeguatamente su quei testi che hanno per oltre un decennio espresso la teoria politica del femminismo americano nero, come lo statuto del Collettivo Combahee River, i saggi e i discorsi di Gloria I. Joseph, di Audre Lorde, di Berenice Reagon, di Michele Russel, di Barbara Smith, di June Jordan per nominarne alcune delle più note. Le femministe bianche hanno letto e imparato dalla antologia This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color, e spesso si sono limitate a vedere questa antologia come un semplice attacco verso le femministe bianche. In tal modo i sentimenti delle bianche rimangono al centro. Ho quindi bisogno di muovermi fuori dalla base e dal centro dei miei sentimenti rettificando che i miei sentimenti non sono il centro del femminismo.
Se leggiamo Audre Lorde o Gloria Joseph o Barbara Smith, comprendiamo che le radici intellettuali di questa teoria femminista non sono il liberalismo bianco o il femminismo euro-americano, ma l’analisi dell’esperienza afro-americana articolata da Sojourner Truth, da W.E.E. Du Bois, da Ida B. Wells-Barnett, da C.L.R. James, da Malcom X, da Lorraine Hansberry, da Fannie Lou Harmer e da tanti altri ancora? E comprendiamo anche che il femminismo nero non può essere emarginato o visto soltanto come una reazione al razzismo del femminismo bianco, né tantomeno come un contributo ad esso? Riusciremo anche a capire che il femminismo nero si è sviluppato organicamente dai movimenti neri e dalle filosofie del passato, dalla realizzazione pratica di esse e dalle loro opere stampate? (E che va sempre più aumentando il dialogo attivo tra le femministe nere americane e gli altri movimenti di donne di colore all’interno e anche al di là degli USA?)
Evitare questa sfida significa soltanto portare il femminismo bianco lontano dai grandi movimenti per l’auto-determinazione e la giustizia all’interno e contro il quale le donne definiscono se stesse. Ripeto ancora una volta: Chi è questo noi? Siamo giunte alla fine di questi appunti, ma non è realmente una fine.
Il testo di questo articolo è tratto dalla raccolta di scritti di Adrienne Rich pubblicati dal 1979-85 da W.W. Norton & Company, New York London.