FUORI DALLA FAMIGLIA, FUORI DAL LAVORO, REDDITO PER L’AUTODETERMINAZIONE

Ecco finalmente il documento che abbiamo
buttato giù dopo l'assemblea del 11 marzo alla Casa Internazionale delle
donne sul tema del reddito. Abbiamo riflettuto collettivamente su alcune
delle sollecitazioni che ci sono venute da quella assemblea e vi proponiamo
un  testo da cui partire per recuperare una riflessione comune. Vi chiediamo di
arricchirlo con i vostri contributi e di farlo circolare fra tutte quelle che possano
essere interessate, consapevoli che tra "tagliandi alla 194" e "embrioni con
dignità umana" sia irrinunciabile parlare di autodeterminazione delle donne.

 

Fuori dal lavoro, fuori dalla famiglia, reddito per l'autodeterminazione!

-FUORI  DALLA FAMIGLIA

Nonostante
le trasformazioni che l’hanno attraversata e la moltiplicazione delle
sue forme, la famiglia continua ad essere fondata su rapporti di potere
tra i sessi e su relazioni che hanno come paradigma quello
dell’appropriazione dei corpi e del lavoro delle donne, malgrado si
proclami la parità tra uomini e donne.
La famiglia, fondata in primo
luogo sulla coppia eterosessuale – proposta come destino sociale,
cellula isolata, unico spazio della realizzazione delle proprie
possibilità relazionali, sessuali e affettive – continua ad essere il
principale luogo in cui si perpetua  la violenza sulle donne. Tuttavia
rimane il “sacro feticcio” agitato dalla politica e dal vaticano,
diventando sempre più oggetto di promozione e tutela da parte dei
pubblici poteri che su di essa basano e vogliono continuare a basare il
nostro sistema di welfare.

La violenza è ancora una
caratteristica molto diffusa all’interno della struttura familiare: la
violenza sessista da parte di compagni, mariti, padri, fratelli è la
principale causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni.
Accade
troppo spesso che strumentalmente si denuncino unicamente le violenze
compiute da uomini di cultura non occidentale e si taccia sulle
violenze degli uomini italiani contro le donne, italiane e straniere.
Se c’è qualcosa che unisce gli uomini di ogni cultura, infatti, è
proprio la violenza contro le donne che è funzionale al mantenimento
dei rapporti di potere tra i sessi.
La violenza è elemento
strutturale del patriarcato ed ha il suo luogo di elezione nella
famiglia in quanto istituzione che perpetua i modelli del “maschile” e
del “femminile”. Questi modelli culturali sono costruiti come opposti e
complementari generando un sistema di relazioni vincolante e per questo
intrinsecamente violento, caratterizzato dal non riconoscimento
dell’autodeterminazione e della soggettività delle donne.

La
diversità delle forme familiari (alternative nei vincoli che le tengono
unite e/o nel sesso di chi le compone) non ha comportato il superamento
dei ruoli e di una complementarietà binaria e asimmetrica.
Anche la
stessa disciplina sulle convivenze di fatto mai andata in discussione
al parlamento riproponeva e rafforzava il modello unico della famiglia
tradizionale come “società naturale fondata sul matrimonio ”, invece di
garantire e consentire a tutt@ l’esercizio dei propri diritti e delle
proprie responsabilità all’interno delle forme di relazione liberamente
scelte.
Della volontà di difendere questo modello resta
emblematica la Legge 40 che, contro ogni forma di autonomia delle
donne, impone di essere rigorosamente in coppia ed esclusivamente
eterosessuali per poter accedere alla Procreazione medicalmente
assistita (Pma). Inoltre, questa legge ripropone la scissione tra
gestante ed embrione, ponendo in contrapposizione i diritti delle donne
e il “bene del concepito”. Creando lo statuto giuridico dell’embrione
si vuole ristabilire il controllo sul corpo delle donne e sulla
riproduzione che sono tuttora il cuore del potere patriarcale, facendo
anche un passo indietro rispetto alle faticose e comunque
insoddisfacenti e mai del tutto attuate conquiste fatte con
l’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di
gravidanza.

-FUORI DAL LAVORO

La gestione della
riproduzione è, infatti, parte essenziale della divisione sessuale del
lavoro. Le relazioni tra i sessi sono ancora fortemente segnate da una
divisione del lavoro completamente basata sul ruolo di mogli, compagne,
amanti, sorelle, figlie, nonne assunto dalle donne.
Già trent’anni
fa alcune femministe rivendicavano, in attesa della sua
socializzazione, il salario per il lavoro domestico. Da allora, se si è
prodotta la cosiddetta “femminilizzazione” del lavoro, non si è
verificata però una “maschilizzazione” del lavoro di cura e di
ri-produzione.
Questo significa che nonostante nel discorso
politico corrente sia diffusa la consapevolezza di come le
caratteristiche tipiche del lavoro “riproduttivo”, cosiddetto
“femminile”, siano state imposte ed assimilate nella gran parte del
lavoro comunemente considerato “produttivo” e siano divenute il
paradigma della precarietà (che esige capacità relazionali,
disponibilità e reperibilità assolute, mancata distinzione tra tempi di
lavoro e tempi di vita, flessibilità), si continua a voler ignorare
come non sia avvenuto il contrario. Il lavoro di cura e ri-produzione
continua a non essere considerato come “lavoro” e soprattutto continua
ad essere svolto esclusivamente dalle donne.
Anche quando il
lavoro di cura viene esternalizzato alle donne migranti, e quindi
monetarizzato, resta immutata comunque la caratteristica della
divisione sessuale del lavoro; questa forma del lavoro è l’unica che
non sia strutturalmente cambiata.
Se nei decenni passati il lavoro
fuori di casa ha rappresentato per le donne un insostituibile strumento
di emancipazione dai legami familiari, e cioè dalla dipendenza
economica nei confronti di padri e mariti, e di valorizzazione delle
proprie capacità e risorse, oggi non possiamo più attribuirgli questo
valore fondante dell’esperienza soggettiva. Sul mercato del lavoro le
donne sono retribuite meno degli uomini, occupano posizioni meno
rilevanti socialmente ed economicamente e continuano a farsi carico del
lavoro domestico di riproduzione della forza lavoro. La precarizzazione
dei rapporti lavorativi ha infatti prodotto una situazione diffusa di
incertezza e debolezza negoziale: lavoratrici e lavoratori, sempre meno
tutelati dalla legge e messi costantemente di fronte a una
contrattazione individualizzata e asimmetrica, vivono una condizione di
vero e proprio assoggettamento e ricattabilità, ma anche di prolungata
dipendenza economica rispetto alla famiglia.
Per questo oggi è in
primo luogo al reddito, e non al lavoro, che si deve puntare come
strumento necessario per l’autodeterminazione di donne e uomini. Il
reddito permetterebbe infatti di non trovarsi costretti ad accettare
condizioni di lavoro poco dignitose o frustranti, spesso in grado di
spegnere anche la passione più forte per la propria attività.

-REDDITO PER L’AUTODETERMINAZIONE

Negli
anni ’70, la parte del movimento femminista che chiedeva un salario per
il lavoro domestico e contro la divisione sessuale del lavoro, aveva
colto la centralità della lotta per il riconoscimento della
produttività delle attività di cura che le donne, non retribuite,
svolgono nelle famiglie.
Oggi non ricordiamo quell’esperienza per
chiedere un riconoscimento o una monetarizzazione del lavoro di cura
che le donne ancora svolgono. Monetizzare e quindi riconoscere questa
attività ci inchioderebbe al suo svolgimento e ne confermerebbe ancor
di più la prospettiva sessuale.
Oggi ci interessa invece
sottolineare il paradosso del non riconoscimento del lavoro di cura.
Così come il modello neoliberista non quantifica nè riconosce un lavoro
potenzialmente infinito e che riguarda tutti, così noi non riconosciamo
le distinzioni che questa società vorrebbe fare tra lavoro e non
lavoro, e per questo affermiamo che un reddito ci spetta
indipendentemente dal nostro essere all’interno di rapporti di lavoro
codificati dal modello capitalista e patriarcale. Ma soprattutto per
affermare che vogliamo sia garantita a tutt@ l’esistenza, al di là di
quello che si sceglie di fare."
Oggi non chiediamo la retribuzione
del lavoro di cura perché vogliamo che esso sia solo una delle attività
che ognun@, uomo o donna, possa scegliere di svolgere. Un’attività
frutto della libera scelta, della passione o dell’amore tanto quanto
ogni altra attività in una società che garantisca ad ognun@ l’esistenza
– anche sul piano materiale – per il solo fatto di essere nat@, ma,
soprattutto, che permetta l’autodeterminazione dei soggetti.
Tutt@,
infatti, indipendentemente dal luogo di nascita e dalla cittadinanza,
dall’orientamento sessuale dovrebbero avere queste garanzie.
Per
tutte queste ragioni noi oggi chiediamo un reddito per
l’autodeterminazione per tutt@ come strumento per sovvertire la
divisione sessuale del lavoro e per scardinare l’impianto familista,
lavorista e nazionalista dello stato sociale. 
Per potere uscire
dalla famiglia e dal lavoro è necessario pretendere un reddito sin dal
momento della nascita, scisso da ogni stato civile e condizione
produttiva. Inoltre solo il riconoscimento del reddito anche ai
minorenni svincolerebbe le donne dall’essere confinate in ruoli
stereotipati, fra tutti la cura dei figli.
Infine, la possibilità di
liberarsi dal lavoro percependo un reddito potrebbe favorire il
diffondersi di stili di vita improntati alla decrescita e liberi dal
consumismo compulsivo causato da lavori poco gratificanti, che
“risucchiano” l’intero tempo di vita. Dunque per rifiuto del lavoro non
intendiamo il rifiuto di qualsiasi attività, ma quello dei rapporti
produttivi codificati dalla società capitalistica e patriarcale.
Non
c’è sciopero che tenga di fronte alla possibilità stessa di sottrarsi
al lavoro! Il reddito è lo strumento più robusto di cui lavoratrici e
lavoratori possono servirsi per ridisegnare le regole del lavoro stesso.
Per
queste ragioni il reddito potrebbe essere uno strumento per ricostruire
un terreno comune di lotta per le/i lavoratrici/ori, che in un sistema
precarizzato e de/personalizzato sono vittime dell’individualizzazione
delle tipologie contrattuali e delle condizioni lavorative, privati del
valore della contrattazione collettiva e della solidarietà sociale e
dunque costretti ad una dinamica basata sulla competitività e sulla
conflittualità anziché sulla condivisione.
Il reddito che ci
immaginiamo dovrebbe essere di tipo diretto e indiretto, sotto forma di
denaro ma anche di libero accesso alle risorse e ai servizi.

CONCLUSIONI

La
nostra rivendicazione di reddito non è antitetica alla richiesta che
viene posta da tempo dalle varie componenti del movimento, ma è
sicuramente integrativa. Ci sembra infatti paradigmatico di quanto poco
il movimento si sia lasciato attraversare dalle riflessioni del
movimento femminista, il fatto che quasi in nessuna analisi o
teorizzazione venga riportato il caso emblematico di quello che è il
lavoro non retribuito sicuramente più diffuso come il lavoro di cura.

Riteniamo
che la richiesta di reddito posta esclusivamente come uscita dal lavoro
e non come uscita dalla famiglia, collettivamente riconosciuta come
“cellula” fondante del sistema capitalista e come struttura in cui
avviene “l’educazione” a tale sistema, non sia sufficiente. L'uscita
dalla famiglia rappresenta per noi un passaggio imprescindibile e
fondamentale all'interno di un più radicale ripensamento della società,
che comincia dalle relazioni uomo-donna.

Il reddito allora è una
pretesa legittima e necessaria, almeno finché si aspira
all’autodeterminazione, e la rivendicazione di un reddito per tutte e
tutti, di per sé economica e materiale, ha secondo noi sia un valore
simbolico, in quanto deve essere comunque affiancata da una battaglia
politica e culturale che scardini i ruoli e i modelli, sia un valore
specifico, in quanto pone alla base del sistema di welfare non più la
rispondenza ad un ruolo o ad una condizione sociale ma il solo fatto di
esistere, ed è quindi contrapposta agli assegni familiari e a tutte
quelle politiche che legano l’assistenza pubblica al “ruolo”.
Per
potere uscire dalla famiglia e dal lavoro è dunque necessario
pretendere un reddito sin dal momento della nascita, scisso da ogni
stato civile e condizione produttiva.
Ma soprattutto il reddito
individuale è uno strumento simbolico, ancora prima che pratico, per
sovvertire un immaginario che relega le donne al ruolo di
“riproduttrici della specie” o almeno di “dolce metà” di un uomo. In
questo senso intendiamo il reddito, individuale e incondizionato, anche
come uno strumento di liberazione dal dispotismo emotivo della coppia,
che viene proposta come destino sociale, luogo del privilegio emotivo,
unico ambito di espressione delle proprie necessità affettive ed
emblema del privato opposto al resto del mondo.

UN REDDITO CI SPETTA!

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